Una Piccola Scatola Nera (racconto)
Una Piccola Scatola Nera
L’estate aveva avvolto Lecce in un abbraccio caldo, penetrante, che si insinuava nelle strade di pietra bianca e tra i vicoli stretti del centro storico. Il sole rifletteva sulle facciate barocche, creando giochi di luce e ombra, mentre l’aria era satura del profumo di gelsomino e caffè. Lei era lì, seduta su una panchina di pietra nella piazzetta ombreggiata da un grande albero di fico, il suo sguardo perso oltre le pagine del libro che teneva aperto sulle ginocchia, come se i suoi pensieri danzassero al ritmo lento del caldo.
“Non capisci, vero?” sussurrò, quasi parlando a se stessa, ma abbastanza forte perché potessi sentirla. “Non capisci cosa succede quando un perfetto sconosciuto diventa il centro del tuo universo, il fulcro di ogni tuo sentimento, pensiero e fantasia. È come se qualcosa si rompesse dentro di te, per far spazio a tutto questo…”.
Le sue parole si sciolsero nell’aria calda e densa. Aveva ragione: non capivo. Non potevo capire. Ma volevo. Volevo disperatamente essere parte di quella rottura, di quella trasformazione che lei descriveva con una voce così piena di tenerezza e dolore. Era questo l’amore? La capacità di farci vedere ciò che non abbiamo mai visto, sentire ciò che non abbiamo mai immaginato?
Mi avvicinai a lei, sentendo il cuore battere forte, come il rintocco di una campana nella quiete di una cattedrale. “La paura di innamorarsi,” dissi, quasi senza volerlo, “non è forse già un po’ d’amore?”
Lei mi guardò, i suoi occhi scuri come il mare di notte, e per un attimo parve che il tempo si fermasse. Poi sorrise, un sorriso dolce e fragile che sembrava spezzare il calore intorno a noi, come una brezza fresca tra i vicoli.
“Senza tutta questa fretta, mi ameresti davvero?” mi chiese, la voce un sussurro che si confondeva col fruscio delle foglie sopra di noi. “Mi cercheresti davvero?”
Cercai le parole, ma si dissolsero come nebbia. Eppure, nonostante l’incertezza, sentii una verità profonda risalire dal mio cuore. “Non lo so,” dissi alla fine. “Ma so che ora, proprio adesso, voglio conoscerti come non ho mai conosciuto nessuno. Voglio vedere oltre la superficie, oltre il riflesso che mostri al mondo. Spogliati, ma non dei tuoi vestiti. Spogliati delle tue paure, delle tue insicurezze. Mostrami la tua anima.”
Lei mi fissò a lungo, e nei suoi occhi vidi un lampo di paura. Ma poi quella paura si dissolse, sostituita da una dolce determinazione. Una sensazione che riconoscevo, perché l’avevo provata anch’io.
“Secondo te,” disse lei dopo un lungo silenzio, “le cose che aspettiamo, arrivano davvero?”
Esitai. La risposta era semplice, ma richiedeva coraggio dirla. “Sì, credo di sì,” dissi infine. “Ma ci vuole pazienza. Bisogna aspettare senza aspettare. Bisogna vivere l’attesa come parte della vita, non come un’interruzione. Se permetti all’attesa di rubarti un po’ di vita, allora le cose non arrivano mai.”
Lei annuì lentamente. “Quindi, bisogna fregare l’attesa, prendersi gioco di lei?”
“No,” risposi, sorprendendomi della sicurezza nella mia voce. “Bisogna amarla. Accadono solo le cose che si amano davvero.”
Restammo in silenzio, ascoltando il crepitio delle cicale, il vociare distante delle persone che si riversavano nelle strade della città vecchia per l’ora dell’aperitivo. Lecce si stava preparando per la sera, quando le luci dorate dei lampioni avrebbero illuminato le facciate dei palazzi antichi e le strade si sarebbero riempite di suoni e profumi.
Camminammo insieme, percorrendo le vie strette del centro storico, passando accanto alle chiese barocche e ai cortili nascosti, lasciando che la città ci accogliesse nel suo abbraccio. Parlammo di tutto e di niente, dei sogni che ci avevano portato fin lì, delle paure che ci trattenevano. Parlammo di come il passato si annidasse in noi come una piccola scatola nera, registrando ogni odore, ogni sapore, ogni attimo, anche quelli che credevamo dimenticati.
Le ore scivolarono via, e quando il sole tramontò dietro la cattedrale, tingendo il cielo di sfumature di rosa e oro, sapevo che qualcosa dentro di me era cambiato. Non sapevo ancora cosa, ma sentivo una nuova speranza, una nuova luce.
Forse non avrei mai capito davvero tutto ciò che si nascondeva dietro i suoi occhi, tutti i pensieri che popolavano la sua mente. Ma forse non era necessario. In quel momento, eravamo vivi. Eravamo insieme. E questo, pensai, era tutto ciò che contava.
“Le cose che aspettiamo,” dissi piano, “arrivano solo se le lasciamo andare.”
Lei annuì, il suo sorriso illuminato dalla luce morbida del tramonto. In quel sorriso c’era la risposta a tutte le domande che non avevo ancora trovato il coraggio di fare.
Antonio Bruno
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