Ancora una volta. Naturalmente. Ascoltando Alone Again (Alone Again (Naturally)) di Gilbert O'Sullivan

 Il tempo, quello strano custode delle attese, era passato.


Non tanto da guarire, ma abbastanza da farmi credere che, forse, potevo fare qualcosa per me stesso. Mi sono promesso di essere gentile con me, come quando abbracci un amico che ha bisogno e gli dici: "Va tutto bene, ci pensiamo domani".
Così, ho deciso di andare su una torre. Non una qualsiasi, no, una di quelle che sfiorano le nuvole, dove l’aria è così leggera che ti sembra di poterla bere. Avrei scalato ogni gradino con il cuore in gola, e una volta in cima, mi sarei lasciato cadere. Non per il gusto di cadere, ma per spiegare a chiunque fosse rimasto giù a guardare, cosa si prova quando ti si spezza dentro qualcosa e nessuno se ne accorge.

Sai, quando ti spezzi davvero, non fai rumore. Non è come un vetro che si frantuma, è più come una foglia che cade in un bosco lontano: accade, ma nessuno lo sa.

Mi ricordava quel giorno. C’era il suono di una chiesa, di voci che mormoravano parole a mezza bocca: "Che pena, non è venuta". Mi avevano guardato come si guarda un albero senza foglie, come qualcosa che avrebbe dovuto essere, ma che non è mai stato. Lei non c’era. E allora?
Ho sorriso, o forse non l’ho fatto. Ero già da un’altra parte. La gente, poi, se n’è andata, com’è giusto che sia. E anch'io me ne sono andato. Solo, ancora una volta.

Ma sai qual è la cosa strana?
Il giorno prima ero felice. Sul serio, c’era la luce dentro, quella che ti fa camminare a un palmo da terra. Era una felicità piccola, di quelle che ti sembrano infinite, come se il mondo intero ti stesse aspettando con le braccia aperte. Ero pronto, sì, a essere qualcuno, a fare qualcosa. Ma poi arriva lei, la realtà, e ti accarezza la testa come farebbe una madre, per poi darti una spinta così forte da farti cadere. E senza neanche toccarti, ti spezza in due.

E lì, in quel momento, ho iniziato a chiedermi: Dio, dove sei?
Se ci sei, se stai guardando giù, perché te ne vai proprio adesso? Nel momento in cui avrei bisogno di un segno, di una carezza, di qualcosa. Ma niente. Nemmeno una risposta. Solo silenzio, e io lì, ancora una volta, solo.

Mi è venuto da pensare che nel mondo ci sono più cuori rotti di quanti ne possiamo riparare. Li lasciamo lì, abbandonati come tazze sbeccate che nessuno vuole più usare. E noi, cosa facciamo?
Ci fermiamo. Ci guardiamo attorno. Ma non troviamo nessuno.
Rimaniamo soli anche noi, naturalmente.

Gli anni passano, come passano le stagioni, senza chiederti il permesso. Un giorno sei lì, e il giorno dopo, qualcuno se ne va. Mi ricordo quando è successo con mio padre. Quel giorno le lacrime sono arrivate, tutte insieme, come un temporale inaspettato. Le ho lasciate scorrere, senza paura di essere visto. Non c'era niente da nascondere. Era solo vita, che faceva il suo corso.

Poi, c’è stata mia madre. Sessantacinque anni, e un cuore che non riusciva a capire perché l’unico uomo che aveva mai amato le fosse stato strappato via. Nonostante i miei tentativi di tirarla su, di dirle che andava tutto bene, non ci sono mai state parole giuste. Non ci sono parole che riparano certi cuori. E così, un giorno, anche lei è partita. E io ho pianto di nuovo, come il primo giorno.

Piansi tutto il giorno. E in quel pianto c'era tutto: l’amore, la rabbia, la vita che ci sfugge tra le dita e non riusciamo mai ad afferrare. Piansi fino a che non rimase altro che silenzio.

E in quel silenzio, come sempre, ero solo.
Ancora una volta. Naturalmente.

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