L'ora fatata (racconto)
L'ora fatata
La luna si
rifletteva sulle pozzanghere, creando un gioco di luci che danzavano sulla
strada bagnata. In quella notte, il paese sembrava respirare, un organismo
pulsante di storie e ricordi. I lampioni proiettavano ombre lunghe, e il
profumo della terra umida si mescolava all’aria fredda, mentre le foglie
sussurravano segreti di un amore perduto.
Io la
conoscevo, l’ora fatata. Quella magica dimensione che viene dal bosco, dove i
sogni si intrecciano con la realtà, dove le parole si trasformano in melodie.
Sapevo che mi avresti aspettato, come sempre. “Io ti verrò a cercare,” mormorai
tra me e me, mentre un brivido mi attraversava la schiena. Lo sapevi anche tu,
che sarei tornato. La domanda, però, era un’altra: “Tu faresti lo stesso con
me?”
Ecco, questo
era il nodo che non mi lasciava dormire. I ricordi di una vita passata, un eco
che tornava a farsi sentire. L’unica colpa che avevi era di ricordarmi mia madre,
la sua voce melodiosa, il suo modo di ridere che riempiva le stanze. Ma, a
pensarci bene, era più di questo: era la sensazione di essere vivo, di non
essere solo un’anima vagante nel tempo.
La vita
umana, pensai, è un breve momento tra due istanze di inesistenza. E
nell’intrico di quell’esistenza, c’era spazio per l’amore, per le risate e i
pianti, per i salti di coraggio. Per i luoghi che avevo visto e quelli che
ancora sognavo di scoprire, per i cuori che avevo incontrato e quelli che avrei
ancora dovuto incontrare. “Prima di andare via, assicurati di esserci stato,”
mi ripetevo. Perché ciò che resta, alla fine, non è altro che il ricordo di
come avremmo vissuto.
Ma eravamo
unici, in questo mare di individualità. Sì, lo sapevo bene: ognuno di noi porta
in sé una gemma, una luce che brilla anche nei momenti più bui. Eppure, ci
ostiniamo a cercare lontano, illudendoci che l’altro abbia un sapore migliore,
trascurando le meraviglie che già ci circondano.
Bastava poco
per sentirsi meglio, pensai. A me bastavi solamente tu. E così, mentre
il chiasso dentro di me si affievoliva al pensiero di te, capivo che il mondo
si faceva più leggero. Non c’era bisogno di avvicinarsi alla scala mobile, né
di combattere contro la corrente. Lasciala scorrere, e prenditi il tuo tempo.
Era proprio così, un gesto semplice, quasi banale, ma carico di significato.
Mi venne in
mente quella sera, quel cammino tra le stelle, le parole nuove che avevo
ascoltato. “Quando scende la sera in questo paese,” avrei voluto dirti, “tra
luci e suole, s’incanta la gioia.” E mentre l’asfalto bagnato rifletteva il
mondo, il mio cuore si animava di un’inspiegabile nostalgia, di un desiderio di
rivederti. Ogni volta che avrei avuto voglia di parlarti, di toccarti, di
sentirti ancora mia… era stato splendido amarti.
E un giorno,
forse, ti avrei incontrato per strada, sotto casa tua. E quando lo farò, mi
fermerò un attimo, e invece di chiederti le solite sciocche domande, ti
guarderò dritto negli occhi e ti dirò: “Sei disposta a prendere per mano il
cielo?” Se mi risponderai di sì, saprò che sarai pronta a seguirmi ovunque,
anche all’inferno.
Chi ama,
conduce l’anima per mano. Niente di più.
Antonio Bruno
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