La Precarietà delle Onde (racconto)


La Precarietà delle Onde

La riva è più sicura, ma a me piace la precarietà delle onde del mare. Non so perché questa frase di Emily Dickinson mi risuoni così forte nel cuore ogni volta che la ripeto. Forse è perché in fondo, anche io, come lei, preferisco il brivido di un'emozione che rischia di travolgermi piuttosto che la calma piatta di una vita senza sorprese. E ogni volta che penso a questo, penso a Luca, e a come tutto è cominciato.

Era una di quelle sere di giugno in cui Lecce sembra un gioiello antico, incastonata tra le stelle e le pietre bianche dei palazzi. L’aria era tiepida, il profumo dei fiori d’arancio si mescolava con quello della salsedine, e le luci delle luminarie si riflettevano sul viso delle persone, rendendole tutte più belle. Passeggiavo da sola lungo il corso, il mio libro preferito sotto il braccio, sentendomi più leggera di una piuma. Poi lo vidi.

Luca era seduto al tavolo di un bar, una tazza di caffè davanti a sé e lo sguardo perso nelle pagine di un libro. Indossava una maglietta bianca, semplice, e i suoi capelli castani erano scompigliati, come se il vento di quella sera avesse deciso di giocarci un po’. C’era qualcosa di magnetico in lui, un'aura di mistero che mi attirava come il mare di notte. E prima ancora che me ne rendessi conto, ero già entrata nel locale, ordinando un caffè e sedendomi al tavolo accanto al suo.

«Mi piace come leggi» dissi senza nemmeno pensarci, rompendo il silenzio che ci separava.

Lui alzò lo sguardo, sorpreso, e sorrise. «Davvero? E come leggo?»

Era un sorriso che prometteva tutto e niente, e io mi sentii sciogliere come un gelato al sole. «Come se stessi ascoltando il libro, non leggendolo» risposi, improvvisando. «Come se ogni parola avesse un suono particolare che solo tu puoi sentire.»

Luca rise, e quella risata sembrò schiarire l’intera piazza. «Allora devo farti conoscere questo libro» disse, porgendomelo. «Parla di mare, di onde, di insicurezza. Esattamente come te.»

Da quella sera in poi, la nostra storia prese il largo come una barca senza remi, spinta dal vento dell’incertezza. Ci incontravamo ogni giorno, in un angolo diverso della città: sui gradini del Duomo, sotto l'ombra degli ulivi, lungo la costa di San Cataldo. Parlavamo di tutto e di niente, delle nostre paure e dei nostri sogni, delle cose che ci facevano ridere e di quelle che ci spezzavano il cuore. E quando i nostri sguardi si incrociavano, era come se il mondo si fermasse per un attimo.

Un pomeriggio, mentre eravamo seduti sul muretto del lungomare, con il sole che tramontava alle nostre spalle, Luca mi guardò negli occhi e disse: «Sai, credo che l'amicizia tra uomo e donna sia possibile, ma per mantenerla tale bisogna che ci sia una leggera antipatia fisica.»

Risi, scuotendo la testa. «Allora siamo condannati, perché io non provo alcuna antipatia per te.»

Luca mi guardò serio, e poi prese la mia mano. «E se invece ci lasciassimo andare alle onde? Se smettessimo di preoccuparci di cosa è giusto o sbagliato e semplicemente vivessimo questo momento, come le onde vivono il mare?»

Le sue parole erano un sussurro, una promessa. E mentre i nostri volti si avvicinavano, mentre le sue labbra si schiudevano sulle mie, sentii il cuore esplodere in un milione di pezzi, come un'onda che si frange contro la scogliera. Era folle, intenso, egoista, come diceva Jodorowsky, ma era vero. Era nostro.

Passammo l'estate a esplorare ogni angolo nascosto di Lecce e dei suoi dintorni, come due naufraghi che avevano finalmente trovato la loro isola. Ogni sera il cielo ci sembrava più grande, le stelle più luminose, il mondo più bello. Ma la vita, come le onde del mare, è fatta di alti e bassi, e presto mi resi conto che stavo cadendo sempre più in profondità in un abisso che non aveva fondo. Perché mentre io mi aggrappavo a quel sentimento come un naufrago a una zattera, Luca era già lontano, sospinto da un vento che non potevo vedere.

Lui mi amava, o almeno credeva di farlo, ma non nel modo in cui io amavo lui. La sua libertà era la sua ancora, la mia dipendenza il mio naufragio. E così, un giorno di settembre, quando le foglie cominciavano a tingersi di giallo e l'aria si faceva più fresca, Luca mi guardò negli occhi e mi disse addio.

«Non posso essere la tua riva, Chiara. Io sono un'onda, e tu meriti di più.»

Le sue parole furono come un coltello che mi tagliava l'anima. E mentre lo guardavo allontanarsi, il cuore in frantumi, capii cosa intendeva Emily Dickinson. La riva è più sicura, ma la precarietà delle onde ti fa sentire vivo. E io, per quanto dolore potessi provare, non avrei mai rinunciato a quel brivido, a quella follia.

Passarono giorni, settimane, mesi. La vita continuò, lenta e inesorabile, come un fiume che scorre verso il mare. E io imparai a camminare di nuovo, a respirare senza sentire il peso del dolore. Ma ogni tanto, nelle sere d'estate, quando il profumo dei fiori d’arancio riempie l’aria e le stelle sembrano cadere dal cielo, mi ritrovo a passeggiare lungo il corso di Lecce, il cuore pieno di ricordi, gli occhi persi tra le onde del mare.

E in quei momenti, mentre il mondo tace e il silenzio si fa profondo, sento ancora la voce di Luca che mi sussurra all'orecchio: «Ti chiameranno pazza, intensa, egoista, ma tu resta ferma in te stessa, Chiara. Perché sei nata per vedere le cose in un altro modo. Sei nata per amare le onde del mare.»

Antonio Bruno

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