Il carnevale degli anni 60


Mi accorgevo che era arrivato il carnevale perché nelle botteghe di generi alimentari, a Cerundolo e nella Cartoleria delle signorine Manno c’erano le maschere di cartone. Si trattava di personaggi maschili e femminili sempre gli stessi, la principessa e il cowboy erano le maschere preferite da noi bambini.
Ma i giovani di quegli anni non avevano una maschera precisa, le donne si travestivano da uomini e gli uomini da donna e andavano in giro per il paese più bello del Mondo a fare scherzi. Mio padre mi diceva che si chiamavano “camise cacate” e che queste maschere erano quelle della sua infanzia degli anni 30. Mi raccontava che nessuno del popolo aveva dei costumi veri e propri e che questi c’erano solamente nelle feste “dei signori”. Lui sentiva moltissimo il divario sociale tra popolo e signori, me lo diceva sempre. Io invece percepivo che in quegli anni ’60 le cose stavano cambiando, intuivo che la differenza tra i ceti sociali si riduceva ogni giorno di più. La rappresentazione plastica di questa emancipazione la coglievo nell’imporsi del consumismo. In quegli anni si cambiavano i mobili di casa mia che prima erano stati costruiti dagli artigiani con quelli prodotti dalle industrie e soprattutto in ogni casa arrivarono due elettrodomestici che riuscirono a cambiare le abitudini dei cittadini di San Cesario ovvero la Tv e il frigorifero.
La Tv faceva nascere i desideri con la pubblicità di carosello e il frigorifero cambiava le abitudini alimentari che erano in passato collegate strettamente con il consumo dei prodotti freschi di stagione.
Il carnevale era molto sentito a casa mia perché mia sorella Daniela tornando a casa da scuola  “pretendeva” che mia madre gli confezionasse un vestito di maschera che lei avrebbe dovuto indossare nelle festicciole scolastiche. Mia madre pur avendo portato in dote la macchina per cucire Singer non era molto brava a cucire. Le insistenze di mia sorella la costrinsero a farsi aiutare dalle vicine di casa e mia sorella ogni anno ebbe il suo costume che sfoggiò a scuola.

Io invece vedevo i miei coetanei che oltre ad indossare costumi improvvisati avevano la bottiglietta di plastica piena di borotalco, che noi chiamavamo cipria. Questa bottiglietta era impiegata per gli scherzi alle mascherine di passaggio che urlavano a più non posso quando le inseguivamo per riempirle di borotalco imbiancandole tutte.
Ma tra maschi invece c’erano dei veri e propri duelli con la cipria! Ci si sfidava a singolar tenzone. Il tutto avveniva in luoghi meno frequentati, tra tutti era preferito lo spazio dietro la sagrestia della Chiesa madre, quella che ancora oggi si chiama via Duomo.
Nei giorni finali del Carnevale sia il Martedì che il Giovedì grasso moltissimi cittadini del paese più bello del Mondo erano in maschera. Erano adulti, giovani e bambini, tutti in maschera che riempivano letteralmente la piazza e sfilavano in via Dante.

L’epilogo del carnevale, per i giovani, erano i veglioni. Quello organizzato ogni anno da Nunzio Mariano era il più ambito e richiamava persone da tutti i paesi vicini e anche dalla vicina Lecce. In uno di quegli anni organizzò un veglione al Cinema Iride e venne a San Cesario Lucio Dalla che allora cantava paff bum e quindi era il 1966.
Qualche giorno fa un mio coetaneo, riferendosi agli anni della nostra infanzia, mi ha detto due parole che mi hanno suggestionato molto. Lui mi ha detto “eravamo felici…”

Antonio Bruno

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