COME GARANTIRE LA PENSIONE A TUTTI? PER GARANTIRLA TUTTI DEVONO LAVORARE. CHI PUÒ FARE LAVORARE TUTTI?

 

COME GARANTIRE LA PENSIONE A TUTTI? PER GARANTIRLA TUTTI DEVONO LAVORARE. CHI PUÒ FARE LAVORARE TUTTI?

Elsa Fornero docente universitaria presso il dipartimento di Management dell'Università degli Studi di Torino, ha scritto un articolo pubblicato dal quotidiano LA STAMPA oggi 11 agosto 2023 in cui suggerisce provvedimenti per garantire LA PENSIONE A TUTTI.

Il presupposto da cui parte la Prof.ssa Fornero è il seguente:

“[…] interventi strutturali a sostegno dell’occupazione (con investimenti importanti su scuola, ricerca, innovazione e cambiamento tecnologico) e delle retribuzioni (con l’introduzione del salario minimo e misure per incrementare la produttività)”.

In definitiva se tutti lavorano, tutti prenderemo la pensione.

Sembra la scoperta dell’acqua calda. Ma da questo presupposto possiamo farci una domanda che è la seguente:

PERCHE’ SOLO UNA PARTE DEI CITTADINI LAVORA – MENTRE UN’ALTRA PARTE DEI CITTADINI E’ DISOCCUPATA?

Per rispondere a questa domanda dobbiamo riflettere su chi impiega le persone.

E’ del tutto evidente che c’è qualcuno che assume personale a cui da un corrispettivo economico in cambio di una prestazione lavorativa.

Su 59 milioni e 236mila persone residenti sono 23 milioni e 182mila gli italiani che lavorano (dati Istat relativi all’occupazione in Italia relativi al primo trimestre del 2022).

Significa che ogni 20 italiani 8 lavorano e 12 non lavorano.

Per chi lavorano i 4 italiani?

3.249.000 è il numero complessivo dei dipendenti pubblici, cioè di cittadini italiani che lavorano per lo Stato, per le Regioni, per le Province e per i Comuni.

Significa che ogni 20 italiani 1 lavora per lo Stato, 7 lavorano per i privati e 12 non lavorano.

Queste sono le circostanze per cui 8 persone devono campare loro e le loro famiglie, versare i contributi per la propria pensione e far campare le restanti 12 persone che non lavorano.

Queste circostanze le ha determinate IL NEOLIBERISMO ECONOMICO E LA COMPETIZIONE DEL LIBERO MERCATO.

Tradotto significa che in Italia I PRIVATI RIESCONO A DARE LAVORO SOLO A 7 PERSONE OGNI 20 ITALIANI.

E’ DEL TUTTO EVIDENTE CHE IL NEOLIBERIMO NON HA LA SOLUZIONE. IL NEOLIBERISMO ECONOMICO NON RIESCE A DARE RISPOSTE IN TEMA DI LAVORO A TUTTI E QUESTO E’ GIA’ ACCADUTO CON IL COVID, QUANDO TUTTI ABBIAMO DOVUTO PRENDERE ATTO CHE IL NEOLIBERISMO ECONOMICO NON E’ STATO IN GRADO DI AFFRONTARE QUEL PROBLEMA CHE INVECE HANNO AFFRONTATO E RISOLTO I CITTADINI CON LA SOLIDARIETA’ TRA LORO.

La mia analisi volutamente lascia ancora una volta la domanda aperta:

Come garantire la pensione a tutti? PER GARANTIRLA TUTTI DEVONO LAVORARE. Chi può fare lavorare tutti?

Buona riflessione

L’ANALISI: COME SALVARE I NOSTRI GIOVANI
ELSA FORNERO
Immaginate una banca o un intermediario
finanziario che vi prometta un tasso di rendimento
certo ed elevato (che so: il 5%, al
netto dell’inflazione) sulle somme che decidete
di depositare, quando le attività finanziarie
“sicure” presenti sul mercato offrono 2-3%
in termini nominali, lasciando perciò a voi il rischio
di aumento dei prezzi. Un’offerta simile
dovrebbe indurvi a una sana diffidenza: come
si può promettere qualcosa che non ha una solida
base reddituale? Dovreste sospettare una
truffa e fareste bene a stare alla larga da questo
tipo di offerte (la vigilanza delle autorità serve
proprio a evitarle, eppure la storia finanziaria
di quasi tutti i Paesi è disseminata
di imbrogli di questo tipo). Promettere
è facile, promettere più
di quanto sia ragionevole mantenere
è disonesto.
Non in politica, però, dove le
promesse debordano in campagna
elettorale e faticano a tradursi
in realtà quando si è al governo e si devono fare
i conti con risorse scarse e la necessità di non
perdere la fiducia dei creditori, né quella degli
elettori. In politica, però, non si tratta di truffe
bensì di illusioni, più raramente di ideali. Ne derivano
provvedimenti sganciati dalla realtà economica,
spesso presentati come temporanei,
poi rinnovati con fatica di anno in anno, con graduale
delusione dei cittadini, crescente incertezza
per chi deve programmare e, soprattutto,
con la rinuncia a una strategia di medio-lungo
termine con chiari obiettivi di crescita.
Un esempio del connubio politico tra conoscenza
imperfetta e promesse azzardate è stato
a lungo il sistema previdenziale, per troppo tempo
lontano anni luce da considerazioni di sostenibilità,
ossia di solidità ed equità del “contratto
tra generazioni” che ne è alla base.
La previdenza pubblica si regge infatti sui
contributi versati dai lavoratori, che sono risparmio
per finanziare il consumo nell’età anziana
quando cessano l’attività lavorativa e il reddito
da lavoro. I lavoratori attuali, con i loro contributi
forniscono i mezzi per pagare le pensioni attuali
e riceveranno a loro volta le pensioni grazie
ai contributi dei lavoratori che verranno dopo
di loro. La legge stabilisce l’obbligo dei lavoratori
alla partecipazione, l’aliquota contributiva
e l’età di pensionamento. La pensione deriva
(o dovrebbe derivare) da questi tre parametri,
ai quali si aggiunge un “rendimento” reso possibile
dall’incremento percentuale degli occupati
e del loro reddito medio (e quindi dalla demografia
e dall’inclusività ed efficienza del mondo
del lavoro). Una politica che prometta pensioni
sistematicamente superiori a quelle compatibili
con l’equilibrio finanziario non fa altro che trasferire
l’onere “dell’extra-rendimento” (concetto
non troppo dissimile dall’extra-profitto di cui
tanto si parla in questi giorni) alle generazioni
future che non hanno voce in capitolo e non è sostenibile
per definizione. L’impoverimento dei
giovani negli ultimi decenni, ampiamente documentato
dalle statistiche, non è certo estraneo
all’illusione creata nel passato che bastassero
leggi generose per creare pensioni generose.
La sostenibilità regge sulla “formula contributiva”
di calcolo della pensione, introdotta nel
1996 - con lo scopo di ricondurre le politiche
previdenziali a una maggiore equità intergenerazionale
– e applicata a tutti, indipendentemente
dalla durata residua della vita lavorativa,
a partire dal 2012. È la formula che, oltre a
permettere flessibilità nell’età di pensionamento,
consente la separazione tra previdenza e assistenza
invocata dai sindacati: si finanziano le
pensioni con i contributi, che sono proporzionali
al reddito da lavoro, mentre si attinge alle imposte
progressive per finanziare la solidarietà,
necessaria in un sistema pubblico. Rende palesi,
e quindi più difficili da realizzare, i privilegi
della precedente formula retributiva, che favoriva
le categorie più agiate, in una sorta di redistribuzione
a contrario, dai poveri ai ricchi.
La formula però non piace alla politica perché
le toglie margini di intervento ed è forse poco
compresa dai cittadini, inclusi quelli di giovane
età, nonostante la sua trasparenza e la sua capacità
di incorporare elementi di solidarietà. I
giovani hanno sicuramente molte ragioni per
recriminare e chiedere alla politica di intervenire
ma è soprattutto rispetto alla mancanza di opportunità
nel mondo del lavoro che dovrebbero
farlo, non tanto per unirsi alla schiera di quanti
chiedono garanzie pubbliche senza domandarsi
chi ne pagherà il prezzo.
Come si può allora rendere meno incerto il futuro previdenziale dei giovani?
A parte gli interventi strutturali a sostegno dell’occupazione (con investimenti importanti su scuola, ricerca, innovazione e cambiamento tecnologico) e delle retribuzioni (con l’introduzione del salario minimo e misure per incrementare la produttività) si può rendere meno precario e discontinuo il profilo contributivo dei giovani, evitando di snaturare il legame tra contributi e prestazioni proprio del metodo contributivo.
In parte ciò sta già avvenendo con la fiscalizzazione degli oneri sociali per chi ha una retribuzione inferiore a 30.000 euro, ossia con il trasferimento al bilancio pubblico di una parte degli stessi oneri a carico del lavoratore, che se li ritrova perciò in busta paga senza alcuna perdita pensionistica, dato che quei contributi sono a carico della fiscalità generale.
Migliorare e rendere strutturale questa misura costerebbe molto e richiederebbe un intervento altrettanto strutturale dal lato delle entrate pubbliche, scarsamente compatibile con una generale riduzione della tassazione. Ma almeno si avrebbe solidarietà trasparente e non disinvolti ed estemporanei prelievi fiscali.
Una seconda possibilità, anch’essa non gratuita, è di allargare le contribuzioni a carico della fiscalità generale per periodi di disoccupazione, assistenza a famigliari bisognosi di cure, formazione e riqualificazione professionale. Queste misure andrebbero integrate da interventi volti a rendere meno oneroso il riscatto degli anni di laurea e di studi posteriori, magari incentivando genitori o nonni a questa forma di trasferimento a favore di figli/nipoti.
Infine, è naturalmente possibile salvaguardare le attività usuranti/ gravose rispetto a età di pensionamento che, in generale, saranno per i giovani necessariamente più elevate di quelle concesse, un po’ arbitrariamente, ai loro genitori.

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