San Cesario e il sacrificio umano


Il Dufourcq, leggendo le varie Passione; nota che il diacono Cesario, nella prima fase della sua esistenza, è un personaggio molto modesto: viene ordinato diacono dall'apostolo Pietro, accoglie Paolo di Tarso nella sua casa per sette giorni, trascorsi i quali "l'apostolo delle genti" partirà e sosterà per quattro giorni a Tre Taverne - una località dell'antico Lazio sulla Via Appia, a circa 50 km da Roma. Gli anni passano, i ricordi sbiadiscono, le tradizioni si mescolano, e l'umile diacono comincia a uscire dalla sua solitudine: infatti, nella leggenda di Nereo e Achilleo, è lui che seppellisce le tre vergini martirizzate a Terracina. L'imperatore romano Marco Ulpio Nerva Traiano, regnante dal 98 al 117 d. C., operò una persecuzione contro i cristiani: ordinò di punire chiunque si fosse rifiutato di sacrificare agli idoli. Secondo la tradizione, in quell'epoca a Terracina vi era un pontefice di nome Firmino, sacerdote dei falsi dei. Egli, spinto da uno spirito diabolico, approfittò dello stato di ignoranza in cui erano immersi i suoi cittadini circa il vero Dio per convincere molti giovani a diventare famosi con un'azione coraggiosa e sanguinaria, con il pretesto di ottenere la salvezza dello Stato e degli imperatori. Il primo eennaio era consuetudine celebrare una festa in onore di Apollo, durante la quale un giovane, il più bello e nobile della città, doveva sacrificarsi per la prosperità dello Stato; in questo modo veniva immolato un uomo alla divinità per propiziarsene i favori e per invocare il suo sostegno. L'antica usanza prevedeva di prendersi cura del giovane per sei o otto mesi, nutrendolo con cibi prelibati ed esaudendo tutti i suoi desideri, ma alla fine di quel tempo - dopo essere stato ornato con magnifiche armi e fatto montare su un cavallo riccamente bardato—doveva salire fino alla sommità del monte sovrastante la città e precipitarsi nel mare per assicurare al suo nome fama e gloria immortale. Successivamente il suo corpo era bruciato e le sue ceneri venivano conservate con grande onore nel tempio di Apollo. Quell'anno il giovane destinato al sacrificio umano si chiamava Luciano. Quando Cesario vide per la prima volta Luciano, chiese ai suoi concittadini cosa significasse tutto questo splendore di cui questi era circondato; gli risposero: "E' cosi trattato perché deve sacrificarsi", Cesario disse: "Vi prego, nel nome di Dio onnipotente, spiegatemi cosa significa" e riuscì a sapere la storia della tradizione impartita dai loro antenati.
Il diacono rimase inorridito, si indignò per questa barbarie e gridò: "O infelici e sfortunati che siete! questa cecità funesta che vi ha fatto offrire al diavolo le anime di uomini innocenti, vi impedirà in questo mondo e nell'altro di aver parte alla vera vita" ed aspettò il giorno stabilito per la cerimonia facendo veglie e preghiere. Arrivato il 1° gennaio, le autorità, i sacerdoti pagani ed i fedeli si riunirono nel tempio di Apollo per dare inizio ai riti: Luciano sacrificò una scrofa per la salvezza della città e dei suoi abitanti. Successivamente iniziava la processione che si snodava, con lenta solennità, verso il monte. Cesario si rivolse ai presenti ed esclamò: "Se siete saggi, perché vi ostinate a commettere un tale reato? Vi sembra giusto ottenere la vostra salvezza attraverso il sacrificio di un innocente?". Nonostante i suoi vari tentativi di interrompere questo crimine, i riti barbari vennero eseguiti: Luciano, cavalcando, salì fino alla cima della collina; si gettò nel vuoto con il recalcitrante cavallo e, schiantandosi contro le rocce, perì tra le onde insieme alla sua cavalcatura. Dopo questa sconvolgente visione, Cesario gridò: "Sventura allo Stato e ai principi che si rallegrano delle sofferenze e si pascono di sangue! Perché dovete perdere le vostre anime per le vostre impostare ed essere sedotti dagli artifici del demonio?" Il falso pontefice Firmino - udite queste parole del diacono - gli ordinò di tacere, lo fece arrestare dalle guardie di Terracina e portare nella pubblica prigione presso il Foro Emiliano. Da un punto di vista storico, la prima cosa inattendibile è proprio la questione del sacrificio umano, del tutto improbabile nel periodo imperiale e in una città a poca distanza dalla capitale Roma: le genti latine solitamente rifiutarono queste aberrazioni della natura, ed anche se nei primi tempi della civiltà romana tali sacrifici qualche volta avvenivano, sappiamo che l'ultimo di essi dovrebbe risalire alla fine del III sec. a.C., durante la II guerra punica e dopo il disastro di Canne. Secondo la tradizione popolare il sacrificio di Luciano e, successivamente, il martirio di Cesario sarebbero avvenuti dall'alto della rupe del "Fisco Montano".
Il Pisco Montano è uno sperone roccioso di 83 metri e costituisce una struttura geolo-gica a sé in quanto non è inglobato al retrostante Monte Sant' Angelo, sulla cui vetta domina il tempio attribuito a Giove Anxur. La questione è controversa, poiché nel testo originario si parla genericamente di un monte o di un'altura presso la città. Sarebbe piuttosto difficile far salire un cavallo con il suo cavaliere sul Pisco: esiste, infatti, un solo impervio viottolo che conduce al ristretto spiazzo a metà altezza, dove in età moderna fu realizzato il posto di guardia alla sottostante Porta Napoletana, popolarmente denominato "Casa di Mastrilli". Il gesuita Padre Giovanni Frilli da Sezze aggiunge dei particolari a questo racconto: così Cesario, mentre il giovane si lancia, allarga le braccia e quegli cade senza farsi male dall'alto del Pisco Montano, detto anche "Rapa Rossa" e "Dirupo di Rivaroscia". Un tempo, nel quartiere della Marina, s'innalzava una chiesa dedicata a Santa Bar-bara; in essa esisteva un dipinto che raffigurava il diacono Cesario perché - secondo la tradizione - in quel punto egli aveva salvato con un gesto il cavaliere gettato dalla rupe. Secondo il Dufourcq, l'episodio di Luciano e della scrofa scannata compare nella tra-dizione durante l'epoca bizantina. La leggenda sembra essere di origine terracinese in quanto la scrofa è consacrata al dio Silvano, particolarmente adorato nella città; ma la scrofa è anche un animale sacro alla Grande Dea, particolarmente adorata in Cappadocia. La storia di Luciano ha un forte sapore orientale: le molli delizie della vita prima del sacrificio umano ricordano i culti voluttuosi e sanguinari della Frigia e della Cappa-docia. Il suo sacrificio invece ricorda la devotio, pratica religiosa dell'antica Roma secondo la quale il comandante dell'esercito romano si immolava agli Dei Mani per ottenere, in cambio della propria vita, la salvezza e la vittoria dei suoi uomini. Il racconto di Luciano comparirebbe precisamente dopo la conquista dell'Italia, e quin-di del Lazio con Terracina, da parte dei Bizantini di Belisario contro gli Ostrogoti (Guerra greco-gotica, 535-553). Nel testo si sarebbe evidenziata la fisionomia della devotio, ma sarebbe stato cancellato il carattere militare della vittima: alcuni soldati bizantini, d'origine cappadociana, avrebbero introdotto a Terracina i "miti" delle feste pagane delle calende, di cui parla, in una sua omelia, il vescovo Asterio di Amasea - mostrandone la follia e i delitti che si commettevano - e che il nostro agiografo cristiano avrebbe ingegnosamente sfruttato. Quindi l'episodio di Luciano può essere originario della Cappadocia e di importazione bizantina.

Brano e disegno tratti dal Libro illustrato sulla vita di San Cesario, o Cesareo, diacono e martire di Terracina: "CAESARIUS DIACONUS" / Testi e illustrazioni di Giovanni Guida, 2015. (Studio della Passio Sancti Caesarii diac. et Iuliani presb. Terracinae mart.)

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