"Il Sapore di Casa"


 Mi tenevo stretto quel pacchetto di caramelle Sanagola, come fosse l’unica cosa che avesse un senso, l’unico oggetto che potesse darmi una spiegazione. Avevo sei anni e mezzo, ed era luglio. Il sole spaccava il cielo come un coltello troppo affilato e il mondo sembrava diviso a metà: da un lato c'era l'attesa, dall'altro c'era la nostalgia.Acerno, Salerno. Un nome che a dirlo sembrava quasi un gioco di parole, una rima sciocca. Ma per me, allora, era un luogo fatto di colline che si allungavano come pensieri vaghi e alberi che sfioravano il cielo, lontano, irraggiungibile. Mi trovavo lì, in colonia, con altri bambini, ma la loro presenza non cancellava la solitudine che sentivo. Non perché fossi solo, no, ma perché mancava qualcosa che non sapevo definire. Forse un odore, o una voce. Forse solo il ronzio familiare della vita che avevo lasciato a casa.

Poi c’era lui, mio padre. Era venuto a trovarmi, e lo avevo guardato come si guarda un miraggio, come se da un momento all’altro potesse dissolversi in quell'aria calda. Gli avevo chiesto, quasi senza parole, di portarmi via con lui. Di riportarmi a casa. Lui mi aveva guardato negli occhi, con quella dolcezza che era anche un po' tristezza, e mi aveva detto che no, non poteva. Mancavano pochi giorni, mi aveva detto, e poi sarei tornato a casa con tutti gli altri.

Era un uomo di poche parole, mio padre. Parlava come si accarezza un cane, con gesti silenziosi e pieni di significato. Non mi aveva detto molto, ma mi aveva lasciato qualcosa: quel pacchetto di caramelle Sanagola alla menta, le stesse che mi comprava sempre quando andavamo al cinema. Erano caramelle dure, come lo era la vita a volte, ma dentro c'era una freschezza che ti rimetteva in sesto, che ti faceva respirare meglio. Quel sapore di menta era la sua promessa che il mondo non sarebbe crollato.


Me lo ricordo come fosse adesso. Il cinema, le luci che si abbassavano, l’odore di poltrone vecchie e il suono della pellicola che girava. Lui accanto a me, il pacchetto di caramelle che mi passava di nascosto, come se fosse una piccola complicità tra di noi. Le Sanagola, alla menta, sempre. E adesso, in quella colonia lontana, mi tenevo stretto lo stesso pacchetto, come se fosse un filo che mi legava a lui, al cinema, alla casa che mi aspettava.

Ogni tanto ne scartavo una, la facevo scivolare in bocca e chiudevo gli occhi. Sentivo la menta esplodere sul palato, un sapore fresco che mi riportava indietro. Era come tornare per un istante su quelle poltrone di velluto, con lui accanto, in un mondo dove tutto aveva una sua logica, dove le attese non facevano male e i giorni si scioglievano lenti, come una caramella.

E così, in quei giorni che sembravano infiniti, mi tenevo stretto quel pacchetto, come se fosse l’unica cosa vera che possedevo. Era una piccola bugia che mi raccontavo: che tutto sarebbe andato bene, che presto sarei tornato a casa. La menta mi faceva sentire meno solo. Forse non era molto, ma a sei anni e mezzo era abbastanza.

Pochi giorni, mi aveva detto. Solo pochi giorni ancora.

Antonio Bruno

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