"Il viaggio immobile"
"Il viaggio immobile"
Scusami, sono in viaggio. Le parole sembravano semplici, una frase buttata lì, come se fosse una cosa da nulla. Eravamo seduti a quel piccolo tavolino del bar, un caffè stretto e intenso davanti a noi, il sole di una mattina qualunque che filtrava attraverso le tende leggere. Ma quel suo "in viaggio" non era un semplice andare da un posto all'altro. Lei era seduta accanto a me, eppure non c’era più.
Ho chiuso gli occhi per un istante, cercando di seguirla. Sentivo che il mio stesso spirito, come un uccello, prendeva il volo senza che i piedi si staccassero davvero dal pavimento. Mi sono lasciato portare in quel luogo senza confini, in quell’universo privato fatto di immagini, suoni e sapori, proprio come mi aveva insegnato un vecchio saggio nel lontano Oriente, per il quale viaggiare non era altro che un atto di abbandono alla vita.
Di colpo mi trovavo tra montagne imponenti, i cui picchi affondavano nella neve bianca e densa, solitaria, di una purezza che quasi faceva male agli occhi. Lì, sotto la neve, intuivo tutto il silenzio dell’Asia, e mi sembrava di sentire il richiamo delle aquile sopra il Tibet, dove le nubi stesse sembravano farsi da parte per lasciare spazio a quella sua libertà pura. Poi, con la velocità e la fluidità che solo l'immaginazione può avere, ero su un mare in tempesta. Le onde si infrangevano contro la mia piccola imbarcazione, ogni onda sembrava chiamare con la forza di un dio primordiale, antico e crudele. L’oceano mi parlava di segreti tenuti nascosti, di vite affogate e riscoperte nei fondali scuri, di creature che nuotavano solitarie lontano dagli occhi umani.
Ancora una volta, come richiamato da un miraggio, sorvolavo deserti e città: mi ritrovai tra i minareti di Istanbul, con i loro muezzin che richiamano alla preghiera, e poi atterrai in una delle piazze di Medina. Era notte e il silenzio era un tutt'uno con il cielo, che avvolgeva ogni cosa. Attorno a me c’erano uomini e donne di ogni età, pellegrini e mercanti, camminatori di mondi. Ogni viso sembrava portare con sé storie mai raccontate, sguardi di passaggio, come me.
Ero ancora in quel mio viaggio senza spazio e senza confini, e mi accorsi che stavo scendendo lungo il Danubio, in una lenta danza di acque che mi portava da Vienna a Mosca. Navigavo in solitudine, senza sentire il bisogno di fermarmi, come se quella corrente mi avesse preso in consegna. Nei villaggi lungo le rive incontravo persone di una saggezza semplice, fatta di antiche leggende e del sapere dell’erba che cresce sui fiumi. Sedevamo a parlare sotto il cielo, e tra quelle parole scoprivo pensieri, intuizioni tenute nascoste per paura di essere fraintesi, o forse per una forma di pudore che solo i veri intelligenti sanno avere.
E poi, come un cerchio che si chiude, mi ritrovai di nuovo seduto al bar, accanto a lei. Aveva finito il caffè e mi guardava con uno sguardo che sapeva di ritorno, come se anche lei avesse concluso il suo viaggio e fosse tornata a casa. Ci guardammo per un attimo e, senza dirci nulla, iniziammo a raccontarci.
Raccontammo di luoghi e di terre che ci sembrava di conoscere da sempre, delle persone incontrate, delle risate e dei silenzi. Ciascuno aggiungeva un dettaglio che l’altro non aveva visto, uno scorcio, una sensazione. Scoprimmo che, in fondo, quei nostri viaggi erano fatti della stessa stoffa: non eravamo mai stati soli, neanche un istante.
È stato allora che ho capito che quel viaggio, l’avevamo fatto insieme, senza spostarci da quel piccolo tavolino di un bar, in una mattina qualsiasi.
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