"Le Onde del Tempo Rubato"


 "Le Onde del Tempo Rubato"

Ricordo perfettamente la prima volta che la vidi. Non è che fosse un momento indimenticabile, di quelli che porti con te come un segreto da custodire. Eravamo alla stazione, e quella pioggia sottile di un febbraio disordinato rendeva tutto più confuso, come le sue mani. Le stringeva in tasca, come se potessero scappare. Indossava pantaloni neri. Niente di che. Tra me e me pensai: "Non è un granché."

Eppure, c’era una calma, in quella sua incertezza, che mi fece restare a guardarla più a lungo del necessario. Il treno non arrivava mai, o forse ero io a sperare che non arrivasse. La gente intorno faceva rumore, eppure con lei c’era un silenzio strano. Come se fosse il tipo di persona con cui non hai mai bisogno di riempire il vuoto, perché il vuoto è già pieno di qualcosa di invisibile. Come una stanza in cui il vento non soffia, ma le tende si muovono lo stesso.

Non ti dico quando iniziammo a frequentarci. Fu un passaggio quasi involontario, come scivolare su una parola mai detta e finire dritti dove non volevi essere. Lei, sottomessa alla vita che aveva scelto – o meglio, a quella che gli altri avevano scelto per lei. Il marito, il bambino. Un matrimonio felice, diceva. Ma quel “felice” lo pronunciava come se fosse una parola straniera, una che non le apparteneva. Lo capivi dal modo in cui cercava qualcuno con cui condividere quella felicità di facciata, come si condivide una casa troppo grande per viverci da soli. Cercava conferme nei dettagli, nei gesti degli altri. Ogni sorriso era un invito a restare, ogni parola un'ancora che l’avrebbe tenuta a galla. E intanto affondava.

All'inizio, tutto sembrava un gioco di equilibri precari. Io, che non cercavo niente. Lei, che cercava tutto. Mi diceva: "Non so cosa voglio." Ma lo diceva come se lo sapesse benissimo, e quel non saperlo era solo una scusa per non ammettere che era troppo tardi per tornare indietro.

Diventammo amanti, senza che ci fosse mai stato un momento in cui lo scegliemmo davvero. Come le onde del mare che non decidono di infrangersi sulla riva: semplicemente lo fanno. E noi, infrangendoci l’uno nell’altra, trovammo qualcosa di inaspettato. Lei si aggrappava a me, forse per respirare, forse per dimenticare di respirare.

C’erano notti in cui restavamo distesi, l’uno accanto all’altra, senza toccarci. Eppure sentivo la sua presenza come un fuoco che brucia, anche se non lo vedi. Sentivo il suo respiro diventare il mio, il suo silenzio farsi strada dentro di me. E mentre lei cercava di dimenticare il mondo che aveva lasciato fuori, io mi chiedevo quando sarebbe tornata a quel matrimonio che non le apparteneva.

Non c’era futuro per noi, eppure c’era tutto. C’era la sensazione che fossimo vivi solo in quei momenti rubati al resto della vita. Come se ogni volta che ci vedevamo, il tempo smettesse di contare. E lei smetteva di essere sottomessa, e io smettevo di essere solo. Eravamo tutto ciò che non avremmo mai potuto essere altrove.

Un giorno, alla stazione, come la prima volta, la vidi di nuovo da lontano. Pantaloni neri, mani nelle tasche. Questa volta non pensai che non fosse un granché. Pensai che forse, nella sua incertezza, era la cosa più vera che avessi mai incontrato.

Antonio Bruno

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