"Ci ritroveremo"

 


"Ci ritroveremo"

Ogni mattina, Paolo si svegliava e trovava quei "mi piace" che le donne, tutte diverse, lasciavano sui suoi messaggi su Messenger. Non erano mai donne di cui si fosse davvero innamorato. Donne che, forse, non lo sarebbero mai state. Eppure, ogni mattina, quei "mi piace" gli davano una sensazione di calore, di riconoscimento, come se l’universo, in qualche modo, gli facesse capire che la sua esistenza aveva avuto un piccolo, ma importante, riflesso nell’anima di qualcun altro. E lui rispondeva con il suo silenzio.

Non perché fosse orgoglioso o fosse troppo timido, ma perché sapeva che, se avesse scritto qualcosa, quei "mi piace" sarebbero svaniti. Le cose che avevi nella vita dovevi tenerle lontane dal desiderio di possederle. Così aveva imparato, e così faceva. Ogni mattina accoglieva i loro segnali senza mai darne uno a sua volta, non fosse altro per il semplice timore che se avesse risposto, quella delicatezza che restava lì sospesa, come un accordo musicale che non si spezza mai, si sarebbe infranta.

Tanto, pensava, "ci ritroveremo".

E si diceva che sarebbe stato bello, amore mio. Avrebbe avuto tempo. Avrebbe avuto tutte le possibilità del mondo di ritrovarsi, anche se lo sapeva: sparivano per mille anni, per poi tornare come se niente fosse. E quando tornavano, si lamentavano perché lo trovavano altrove, cambiato, più forte o forse solo diverso. Ma questo non era un problema che lui doveva risolvere. Era solo la vita che faceva il suo corso. Tornano tutti. Non c'era nulla di tragico. Alcuni perché non trovano di meglio, altri per solitudine, e i peggiori per vedere come stai senza di loro. Era questa la parte che più gli faceva sorridere. Perché, alla fine, eravamo tutti destinati a fare i conti con chi eravamo diventati, non con chi eravamo stati.

"Bisogna chiudere i cicli," pensava. "Non per orgoglio, per incapacità o superbia… solo perché quello che è stato ormai esula dalla tua vita. Bisogna cambiare la musica, pulire la casa, rimuovere la polvere." Così, giorno dopo giorno, chiudeva tutte le porte che aveva lasciato socchiuse. Senza rimpianti. Solo per il semplice fatto che la vita ti chiede di farlo, se vuoi andare avanti. E, alla fine, Paolo lo capì: doveva smettere di essere chi era e trasformarsi in chi era diventato.

Nel frattempo, qualcuno gli diceva che non aveva capito nulla. Che le parole sono solo parole, ma Paolo sapeva che non era così. Le parole erano potenti. Innescavano azioni, mettevano in movimento tutto ciò che non vedevi, innescavano nuovi mondi. Eppure, Paolo le parole le aveva messe lì, nel silenzio, come una promessa che non avrebbe mai infranto. Non voleva mai banalizzare una storia. "Perché," pensava, "una storia accade perché era inevitabile che accadesse." Non importava se fosse finita, o se fosse iniziata male. Quello che contava era che fosse stata. Non bisognava mai ridurre nulla a un mero aneddoto, neppure il dolore o la gioia. "Se mi ci sono immerso, è perché era inevitabile che ci fossi. Così come è stato per te."

Ma non bastava questo. C'era qualcosa di più, un pensiero che tornava in mente a Paolo come una pioggia sottile e persistente, che gli lasciava un po' di malinconia. Una frase di Khalil Gibran, che lo tormentava ogni volta che si trovava di fronte a un bivio: "Non v’è punizione più severa di quella sofferta dalla donna che si trova imprigionata tra un uomo di cui è innamorata e un altro che l’ama." Paolo si chiedeva se anche lei, quella donna, l’avesse mai pensato. Si chiese se avrebbe mai fatto la stessa scelta, se la sua vita fosse stata più semplice o più complicata.

E quando le cose si facevano più difficili, Paolo ripeteva a sé stesso una verità semplice, che aveva imparato a proprie spese: "Non lasciatevi ingannare dalla nostalgia di quel che poteva essere. Non poteva essere nient’altro, altrimenti lo sarebbe stato." Questo pensiero lo teneva sveglio nelle lunghe notti, mentre il suo cuore faceva i conti con un amore che non era mai nato, o forse che non sarebbe mai stato abbastanza.

Perché, forse, l’amore, quello vero, è come una ferita che guarisce. È come quando decidi di staccare una crosta che non senti più. Un piccolo dolore, lontano, che ti ricorda ciò che sei stato. Non ti fa più male, ma è parte di te. Come una cicatrice, ma senza mai averla davvero avuta.

Ogni volta che Paolo pensava a quel graffio, sorrideva. Sapeva che, forse, "ci ritroveremo". Forse.

Nel frattempo, come ogni mattina, l’ordine del mondo restava il medesimo. I "mi piace" arrivavano, le porte si chiudevano, e Paolo imparava che il vero amore, forse, è essere gentile con sé stessi e con il tempo.

Antonio Bruno

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