Risonanze di un binocolo
Risonanze di un binocolo
di Antonio Bruno
Il freddo ha mani lunghe, dita di vetro che s’insinuano tra le giunture dell’anima, sciogliendosi in mille brividi. Tornavo a passo lento dalle distillerie De Giorgi, con il sapore del tempo trascorso e il silenzio che si appiccicava ai miei pensieri.
È strano, davvero, come il tempo si nasconda tra le pieghe del mondo, invisibile, finché un tocco, un suono, o il fruscio di un vento gelido non lo fanno riaffiorare. Mi sono fermato. Davanti a me, un muretto sgretolato e una grata arrugginita. Non erano semplici oggetti, ma testimoni. Parlavano con la voce degli anni lontani, di ricordi che credevo smarriti.
In quell’istante mi sono visto bambino. La cartella sulle spalle era un fardello e insieme una promessa, più pesante dei miei sogni ma non abbastanza da schiacciarli. Olindo Zuccaro, il collaboratore scolastico, ci accoglieva ogni mattina con il gesto rituale di aprire la porta della classe, come se stesse spalancando un sipario su un teatro segreto. I suoi rimproveri non ferivano; erano carezze in incognito, note che ci guidavano piano, come in un valzer lento, nella danza della conoscenza.
Ma un ricordo non arriva mai da solo. È un filo teso che, una volta afferrato, non puoi smettere di tirare. Così, ecco che mi ritrovo con Luigi. Noi due, compagni di giochi e idee folli, davanti a un secchio della spazzatura che custodiva un tesoro dimenticato: un binocolo. Brillava tra i rifiuti come una gemma grezza, e Luigi, con i suoi occhi pieni di desiderio, mi propose uno scambio: il suo prezioso meccano in cambio di quel piccolo oggetto.
Ma io lo sapevo: quel binocolo non aveva prezzo. Era il mio segreto, la chiave di un rituale che non avevo mai condiviso. Mi serviva per scrutare lei, la ragazza della casa di fronte. Era il mio modo di avvicinarmi a un sogno che sembrava irraggiungibile. Lei, che con il suo sorriso riempiva i miei giorni di un coraggio che non conoscevo. Lei, che senza sapere, aveva in mano i fili delle mie prime speranze.
Eppure, la vita sa essere crudele anche quando è giovane. La risposta arrivò da un’amica, non da lei. Un no che pesava, e insieme a quel no, un commento pungente, l’innocenza tagliente dell’adolescenza: "Con quel naso?"
Ah, il mio naso. Il fedele compagno che mi ha seguito per tutta la vita, un promemoria silenzioso che i sogni sono fragili, ma anche che noi, quando impariamo, possiamo essere più duri dei nostri rimpianti.
Ora, cinquantacinque anni dopo, camminando nel freddo che sembra scolpirmi nel ghiaccio, quel binocolo, quella ringhiera, quella risposta tornano a galla. Come eco di un vento lontano, li sento risuonare. Non fanno più male, ma sussurrano. Mi ricordano che siamo fatti di ricordi che si stratificano come neve, fredda ma morbida, e che ci modellano senza che ce ne accorgiamo.
Davanti al fuoco, scrivo queste righe. Sono note per me stesso, forse melodie per qualcuno che vuole ascoltare. Non so se sto cercando di fissare il passato o di lasciarlo andare. Ma in questa danza tra il calore del presente e il freddo dei ricordi, mi scopro a sorridere. Forse il segreto è tutto qui: continuare a danzare, anche quando le dita del freddo provano a fermarti.
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