"L'attesa che non sa aspettare"


 "L'attesa che non sa aspettare"

Era una sera di novembre, il cielo era una tela scura trapuntata di bagliori timidi. Lei si chiamava Marta, lui era Davide. Si erano incontrati per caso, o almeno così credevano; il caso, si sa, è una parola che si usa quando non si hanno spiegazioni più profonde. Si erano scambiati poche parole, all’inizio. Ma erano di quelle che ti restano addosso, come l’odore del mare dopo una notte in spiaggia.

Si incontravano spesso in un bar con luci calde, dove il legno scricchiolava sotto i passi e il caffè sapeva di un’abitudine ancora da costruire. Marta aveva un sorriso che sembrava un segreto. Davide parlava poco, ma quando lo faceva, ogni parola sembrava scelta come si sceglie una pietra preziosa da mettere in tasca per tenerla con sé.

Quella sera si trovarono di nuovo lì, a un tavolo nell’angolo, con la luce che disegnava ombre leggere sui loro volti. Marta guardò fuori dalla finestra; le luci della strada si riflettevano sul vetro come piccoli frammenti di un sogno.

«Posso dirti 'ti amo',» disse Davide, e le parole sembravano un passo incerto su un sentiero sconosciuto. «Ma in quel sentire c’è ciò che resta inespresso, un’ombra che danza tra di noi.»

Marta lo fissò, e nel suo sguardo c’era un piccolo tremito, come quando il vento sfiora un lago. «Condivido l’inesprimibile,» rispose piano. «Quel territorio sconosciuto che vive tra le righe del nostro amore. Nel silenzio, trovo la verità che le parole temono di rivelare.»

Il silenzio che seguì non era vuoto, era pieno. Di loro. Di ciò che non avevano ancora detto e che forse non avrebbero mai detto.

«Ma le cose che aspetti,» sussurrò Marta dopo un po’, «prima o poi arrivano?»

Davide sorrise. Un sorriso fatto di luce e malinconia. «Io credo di sì. Però ci vuole pazienza. Bisogna aspettarle senza aspettare. È dono di pochi, aspettare vivendo. Senza che l’attesa comprometta il vivere sereno.» Fece una pausa, come per assaporare quelle parole, poi aggiunse: «Se permetti all’attesa di rubarti un po’ di vita, allora le cose non arrivano mai.»

Marta ridacchiò. «Insomma... bisogna fregare l’attesa, prendersi gioco di lei?»

«No,» disse lui, scuotendo la testa. «Bisogna amarla. Accadono solo le cose che si amano davvero.»

La cameriera passò, appoggiando il conto sul tavolo. Nessuno dei due fece caso al pezzo di carta. Erano troppo presi a guardarsi, come se nei loro occhi ci fosse qualcosa che valeva di più.

Marta prese un respiro, lungo, come chi sta per tuffarsi. «La persona giusta, secondo te, come si riconosce?»

Davide non rispose subito. Guardò il bicchiere davanti a sé, poi alzò lo sguardo su di lei. «È quella che, quando sta con te, non guarda il telefono ogni mezzo minuto. E ti fa scordare anche a te di averlo. Quella che ti fa venire voglia di parlare e di ascoltare. Di raccontare. Di non sprecare tempo, nemmeno un secondo. Fino a quando guardi fuori e si è fatto buio. Quella con cui condividere un sorriso complice di meraviglia. Tipo: ‘Oddio quant’è tardi, non ce ne siamo accorti’.»

Marta sorrise. Quella sera, di fronte a quel sorriso, Davide pensò che forse non erano mai stati due. Che forse, da qualche parte, prima ancora di incontrarsi, erano stati uno.

E quella notte, tornando a casa, nessuno dei due guardò il telefono. Nemmeno per vedere l’ora.

Antonio Bruno

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