La cittadella

 


C’era una domenica di quelle che sanno di tovaglie stese al sole e vento di sera, quando il tempo era una canzone che nessuno si fermava a riscrivere, perché tanto già suonava perfetta. Guardavamo la cittadella, noi bambini con i giochi ancora sporchi di terra, mentre dentro casa, mamma Maria Oronza e il suo esercito di vicine condividevano il divano come fosse una processione laica attorno al Grundig. Quel Grundig, scelto da papà con la stessa cura che si usa per una promessa, era il re di un tempo che non sapeva ancora di andarsene via.

C’erano Ada, Annita, Cia e i loro bambini, Antonio e Norma, i nostri compagni di rincorse infinite sulla strada che poi si sarebbe chiamata Via Liguria. Ma allora non era una via: era un sentiero di segreti sussurrati tra il vigneto e il cielo basso. Era un mondo che mamma sapeva tessere senza cuciture, e che oggi rivedo come una fotografia con i bordi rovinati, ma la luce intatta.
Oggi ho guardato la seconda puntata di quella serie che parla del dottor Manson e di sua moglie Cristina. E in un frammento, in un attimo che brilla senza rumore, ho visto lei: mamma. Ho visto Maria Oronza, il suo nome scoperto come un tesoro dentro un cassetto di documenti vecchi, la sua forza che non ha mai avuto bisogno di voce per farsi sentire.
E ho capito.
Dietro il dottor Manson c’era Cristina, e dietro me, dietro i passi che hanno portato il mio nome fino a dove sono adesso, c’era lei. C’era mamma che sognava non il figlio che avrebbe voluto, ma quello che sapeva avrei potuto essere. Io sono il sogno che lei ha costruito senza chiedere mai niente in cambio, se non la certezza che un giorno l’avrei capito. E oggi lo so.
E allora Shakespeare aveva ragione. La levatrice delle fate non è solo un’immagine; è un gesto, un battito di ciglia, una madre che soffia piano sul cuore del mondo per dargli una forma, come fossero carrozze di nocciole o fili di luna.
E ogni passo che ho fatto è stato spinto da quella levatrice. Da lei. Da mamma.

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