Intervista al Dott. Antonio Bruno sul tema della "cura" delle organizzazioni e della centralità delle relazioni interpersonali nel mondo del lavoro
Intervista
al Dott. Antonio Bruno sul tema della "cura" delle organizzazioni e
della centralità delle relazioni interpersonali nel mondo del lavoro
Intervistatore: Dottor Bruno, lei ha spesso
affrontato il tema della “cura” delle organizzazioni, ispirandosi anche al
lavoro di Francesco Novara e alle teorie di autori come Maturana, Bateson e
Morelli. Ci può spiegare cosa intende per "cura" di un’organizzazione?
Dott. Bruno: La "cura" di
un’organizzazione non riguarda solo l’efficienza o la produttività, ma anche il
recupero di un senso umano che spesso viene sacrificato sull’altare della
razionalità economica e dell’iper-specializzazione. Come evidenziava Francesco
Novara già negli anni ’60, le organizzazioni diventano spesso “gabbie di ferro”
in cui le relazioni umane si spersonalizzano, riducendosi a rapporti
strumentali. La cura, in questo contesto, significa riportare l'attenzione
sulla dimensione emotiva e interpersonale del lavoro, promuovendo la
cooperazione e il senso di appartenenza. Come Morelli ha affermato, per fare
una mente ce ne vogliono almeno due: nelle organizzazioni, questo si traduce
nella necessità di costruire reti di relazioni autentiche, dove le persone
possano trovare e dare significato al proprio contributo.
Intervistatore: Oggi si parla spesso di
"superumanizzazione del lavoro". Come possiamo interpretare questo
concetto, e quali sono le sue conseguenze sulla salute psichica dei lavoratori?
Dott. Bruno: La "superumanizzazione del
lavoro" è una nozione che fa riferimento all'idea di chiedere alle persone
sempre più competenze emotive, sociali e cognitive, che però finiscono per
diventare anch'esse strumenti di produttività. Danièle Linhart ha sottolineato
come il lavoro moderno, pur meno fisico rispetto al passato, esponga a nuove
forme di alienazione. Si richiede al lavoratore una padronanza assoluta di sé e
un costante atteggiamento di resilienza, multitasking e personal branding.
Questa pressione, paradossalmente, può portare a una sorta di estraniamento, in
cui il lavoro non rappresenta più un’occasione di realizzazione, ma di distacco
da sé. Un ambiente così incentrato sull’eccellenza e sulle performance genera,
di fatto, fragilità, perché chiunque non si allinei a questi standard rischia
di sentirsi inadeguato.
Intervistatore: Di fronte a queste dinamiche, quali
possono essere gli strumenti per "guarire" un’organizzazione?
Dott. Bruno: Credo che il primo passo sia
proprio ripensare le organizzazioni come sistemi viventi, non come macchine.
Seguendo Karl Weick, le organizzazioni non sono entità fisse, ma spazi in cui
il senso viene continuamente creato e condiviso. Novara parlava della
possibilità di una guarigione per le organizzazioni, immaginandole come
organismi capaci di evolversi e adattarsi attraverso una continua interazione
con l’ambiente e con i propri membri. In questo senso, la cura del “terreno
antropologico” è fondamentale: riportare la cooperazione e l’intersoggettività
al centro del contesto organizzativo, favorendo una vera condivisione dei
significati, non solo degli obiettivi.
Intervistatore: L’amore viene menzionato da
Maturana come l’emozione fondamentale alla base del sociale. Può davvero essere
un elemento centrale nelle dinamiche organizzative?
Dott. Bruno: Assolutamente sì, anche se può
sembrare un’idea distante dalle logiche aziendali tradizionali. Maturana
definisce l’amore come una forma di adattamento biologico, una predisposizione
alla collaborazione e al riconoscimento dell’altro. In un’organizzazione, ciò
si traduce nel creare un "dominio di consenso" dove le persone si
sentano legittimate, ascoltate e connesse. Questo significa promuovere un
contesto in cui la competizione non domini, ma venga sostituita dalla cooperazione,
proprio perché l’amore – inteso come un’apertura all’altro – è una forza che
facilita il senso di comunità e di appartenenza.
Intervistatore: Parlando di apprendimento
organizzativo, lei si è riferito al concetto di "teach-back". Ce ne
può parlare?
Dott. Bruno: Il "teach-back"
rappresenta un cambio di prospettiva nell’apprendimento: si tratta di un
insegnamento che ritorna, in cui ogni scambio diventa reciproco. È un concetto
che Paolo Perticari ha definito come “riferimento dialogico operativo”, dove
non esistono ruoli fissi tra chi insegna e chi apprende, ma tutti sono
co-educatori. Questo approccio permette alle organizzazioni di trasformarsi in
spazi di apprendimento continuo, dove le persone sviluppano l'abilità di
adattarsi e di rispondere all’imprevisto. È un processo che coinvolge e
valorizza la creatività e la diversità, e che va oltre la semplice formazione
tecnica.
Intervistatore: In sintesi, cosa ci insegna questo
approccio alle organizzazioni?
Dott. Bruno: Ci insegna che le organizzazioni
non possono ridursi a mere strutture operative; sono organismi viventi fatti di
persone, e come tali richiedono cura e attenzione ai significati. Come diceva
Maturana, vivere è conoscere, e conoscere è sempre un processo relazionale.
Ogni organizzazione è un mondo in continua costruzione, in cui i cambiamenti e
le interazioni strutturali contribuiscono a definire la sua identità. La vera
sfida, oggi, è accogliere questa complessità e tornare a dare valore alle
relazioni, al consenso e alla condivisione: solo così possiamo creare luoghi di
lavoro davvero capaci di promuovere la crescita individuale e collettiva.
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