San Cesario, un racconto di voci perdute


 San Cesario, un racconto di voci perdute

Di Antonio Bruno

C’era una voce che correva tra le strade di San Cesario, come un vento antico che sapeva di pietra e terra bagnata. Parlava del passato, di un tempo in cui il paese era tre anime distinte, tre cuori pulsanti sotto lo stesso cielo. E si diceva che il confine tra un casale e l’altro non fosse solo fatto di strade, ma di storie e silenzi.

Nel casale degli Albanesi, arrivati nel Quattrocento al seguito di Teodoro Urosio, si udivano ancora parole aspre e melodiose che raccontavano di monti lontani e di una libertà perduta. I bambini giocavano tra le case bianche, e ogni tanto qualcuno alzava lo sguardo al cielo, chiedendosi cosa ci fosse al di là del mare. Una nostalgia mai spenta riempiva quell’aria, una nostalgia che, in fondo, li teneva vivi.

Dalla Giordana, invece, giungeva il suono delle campane dei Celestini. Non era solo un richiamo alla preghiera, ma un invito a ricordare. Lì, il tempo sembrava scorrere più lentamente, come se le pietre volessero trattenere ogni istante, ogni passo. Era il respiro della terra, della fatica, della fede incrollabile di chi seminava speranza in un mondo spesso ostile.

E poi c’era il casale alle spalle del Castello. Era un luogo di storie sussurrate, di ombre che si muovevano rapide tra i vicoli stretti. Si diceva che le mura del castello avessero ascoltato più segreti di quanti ne potesse contenere il cuore di un uomo. Ma erano tempi difficili, e spesso il silenzio era l’unico modo per sopravvivere.

San Cesario cambiò volto molte volte. Una volta fu il fuoco, nel 1647, a darle una nuova forma. Fu allora che il Guercio di Puglia, con le sue truppe mercenarie, spense i moti nel sangue. Le pietre che prima erano case e fortezze divennero macerie, e il paese si ritrasse su se stesso, come una bestia ferita. Ma, come spesso accade, dalle ferite nacque una nuova vita. Alla fine del Seicento, i tre cuori si unirono in uno solo, un battito comune che diede vita al San Cesario che conosciamo oggi.

C’erano poi i Marulli, duchi di Campomarino, che ne fecero il loro feudo fino al 1880. Di loro restano memorie sfocate, frammenti di storie che si intrecciano con quelle dei Sancesariesi che, nel Risorgimento, alzarono la testa verso un sogno più grande, quello di un’Italia unita.

E anche se il potere feudale si spense, San Cesario non restò al buio. Si adattò, trovò la sua voce nei ritmi del vicino capoluogo, ma senza perdere il proprio respiro. Oggi, camminando tra le sue strade, si può ancora sentire quella voce antica. È un sussurro che viene dal passato, dal cuore di tre casali, dai sogni degli Albanesi, dai canti dei Celestini, e dai segreti nascosti dietro le mura del castello.

San Cesario non è solo un luogo. È una memoria che vive, un ricordo che resiste, un racconto che non smette mai di essere narrato.

Antonio Bruno

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