La buona pratica di conversare
La buona pratica di conversare
Nella stanza aleggia il suono delle voci, un intreccio di pensieri, una danza di verità personali. Ognuno dice ciò che pensa, come lo dice il cuore, il cervello, la pelle. Io parlo, e loro parlano, le parole si incrociano come foglie in un vento disordinato. Non c’è un ritmo, non c’è un coro: ogni voce segue il proprio sentiero, e il paesaggio che si crea è un mosaico caotico, ma vivo.
Le loro parole sono diverse dalle mie. Io racconto il mio mondo, loro raccontano il loro, ed è come se stessimo guardando la stessa scena da angolazioni opposte. Non c’è un giusto, non c’è uno sbagliato: solo traiettorie che si sfiorano senza mai sovrapporsi davvero. Spiego con pazienza, aprendo i miei significati come si apre un frutto maturo, e loro fanno lo stesso, offrendomi semi che non sempre riconosco.
Io capisco ciò che già so, come se il mio ascolto fosse uno specchio che riflette solo le forme note. Ma anche loro, mi accorgo, seguono lo stesso schema, portandosi dietro la mappa delle loro certezze. Eppure c’è un mistero sottile in questo dialogo: è come se il tentativo stesso di spiegare, di raccontare, lasciasse cadere briciole di qualcosa di nuovo. Forse non è comprensione, forse non è accordo, ma c’è un brivido di scambio, un’elettricità che si insinua tra gli spazi vuoti.
Alla fine, non importa se non ci capiamo davvero. Siamo qui, immersi nella stessa corrente di parole, e in questo flusso troviamo un senso che non appartiene né a me né a loro. È qualcosa che nasce nel mezzo, in quel terreno incerto dove ciò che è diverso si incontra e si sfiora, senza mai fondersi del tutto. E in quel breve istante, forse, accade la magia.
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