Sogni Colorati
Sogni Colorati
Non so quando ho smesso di sognare così. Non in quel modo, almeno. Era come respirare, da bambino: naturale, inevitabile. Sognavo davanti alla finestra della stanza da pranzo. C’era qualcosa di speciale, ma non lo sapevo allora. Solo una finestra, il vetro un po’ appannato, e il mondo là fuori che sembrava più grande di quanto fosse davvero.
Poi un giorno è arrivato quel tavolo. Truciolato rivestito in formica effetto legno. Una di quelle cose che non decidi tu, ma che succedono perché sì. Mia madre l’aveva comprato senza grandi discorsi, senza cerimonie, eppure ha cambiato tutto. Da quel momento, non ero più solo un ragazzino che guardava fuori. Ero un esploratore. Un artista, almeno nella mia testa.
Mi sedevo lì con un compasso, un pennino, e delle vaschette di colori che sembravano quasi più vivi di me. Facevo cerchi. Soffiavo i colori dentro quei contorni e prendevano vita. Un’esplosione di blu, gialli, rossi. Sembrava che il foglio sapesse più cose di me, che mi dicesse: “Dai, continua, non fermarti.”
E poi c’era la radio. Dio, la radio! Un transistor con quel suono un po’ sporco, un po’ caldo, come un abbraccio del passato. Funzionava con le pile che mio padre portava a casa dalle Ferrovie dello Stato. Erano pile vecchie, ma ancora buone. Io le adoravo. Mi piaceva pensare che avessero dentro una specie di energia magica, quella che dava forza ai treni e alle mie serate.
Il suono riempiva la stanza mentre i colori si allargavano sul foglio. Erano canzoni che non sapevo neanche riconoscere, ma che mi facevano sentire grande. Eppure ero solo un ragazzino di undici anni. Sognavo. Ma cosa? Non lo so, non lo ricordo bene. Forse una ragazza, quella che mi aveva detto di no al parco giochi. O forse un’altra vita, una più grande, una dove non c’era il confine della finestra.
Stavo ore lì, senza accorgermene. Il tempo si piegava, diventava piccolo e stretto. Mi sembrava di aver vissuto una vita intera quando alzavo lo sguardo e il cielo fuori era già buio. C’erano i colori, la musica, e c’ero io. Non mi serviva altro.
Ecco, ci penso adesso, dopo anni. Non era solo un tavolo, non era solo una radio, non erano solo colori. Era un modo di credere che tutto fosse possibile. Ed è strano, perché cresci e pensi che non è così. Che c’è un limite, che c’è sempre qualcosa che manca. Ma non mancava niente allora.
Erano sogni semplici, che non avevano bisogno di grandi parole o di grandi storie. Sogni che non facevano rumore, ma ti restavano addosso. Ed è per questo che oggi, mentre scrivo, cerco ancora quel ragazzino seduto al tavolo di formica. Forse non è mai andato via.
Antonio Bruno
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