ELOGIO DELLA POST SINISTRA


Giacomo Papi ha scritto un bellissimo Manifesto per l’Umanità. Consiglio a tutti di leggerlo. Se ci fosse un Movimento, Partito, Gruppo, Associazione che avesse questo Manifesto come progetto Comune io mi sentirei motivato a prendere parte, a dare il mio contributo.
Antonio Bruno Ferro


ELOGIO DELLA POST SINISTRA
Era facile riconoscere la sinistra nel mondo bipolare, poi ha tentato di adeguarsi ai tempi ma s'è ridotta in frammenti e ora nessuno sa dove sia. Estranea al populismo di governo, latita anche nel mondo Pd. L'autore del "Censimento dei radical chic" ha provato a cercarla e ha trovato un'idea rivoluzionaria
di Giacomo Papi
Non so distinguere tra destra e sinistra. L'ho scoperto qualche giorno da un ago-puntore cinese: "Lei non sa, vero?". "Che cosa non so, mi scusi?". "Dov'è mano sinistra". "In effetti, no, non l'ho mai saputo, ci devo pensare, ma lei come lo sa che non lo so?". L'agopuntore mi ha fissato sospirando: "Lo dicono aghi". Mia madre ha lo stesso problema. Dicono che sia una disfunzione neurologica che qualche volta, ma non sempre, si accompagna a dislessia e discalculia. Per ora non ha un nome, soltanto un acronimo: DDS, Disorientamento Destra Sinistra. Ne soffro come altri milioni, e forse miliardi, di esseri umani che da qualche anno - almeno in politica - non riescono più a orientarsi.
Destra e sinistra sono punti cardinali come nord sud est e ovest, solo che non descrivono la collocazione geografica, ma la po-sizione di ognuno rispetto alla storia e a quello che avviene. Lo spaesamento è molto più grave a sinistra.
Com'è fatta la destra è chiaro: coerente-mente con il mandato di conservarsi e, se mai, regredire, la destra non cambia: Io, Dio, Patria e Famiglia, fede nel leader e difesa dal nemico.
La sinistra, invece, è mobile e sfuggente. Una pandemia di DS - che non è il fu partito di Oc-chetto, ma il Disorientamento Sinistra - è avve-nuta nel mondo. Per tentare di ricostituirne i confini viene citata a sproposito, circoscriven-dola in insiemi sempre più piccoli: la sinistra dei Parioli, dei Maduro, dei Saviano, dei No Tav, No Tap, No Eu-ro, la sinistra del No, la sini-stra del Sì, la sinistra dura e pura, la sini-stra del popo-lo, la sinistra dei salotti, del-le élités, dei ri-ders, degli ope-rai, dei radical chic. La sinistra che deve torna-re nelle periferie, e che non sa più la strada.
Per qualcuno destra e sinistra sono parole vecchie, del Novecento, ma a dirlo sono quasi sempre quelli di destra per prendere voti a sinistra.
L'agopuntore ha scosso la testa: "La sinistra lei fa più fatica, signore". Mi ha sfilato un ago da dietro l'orecchio: "Va meglio, vero?". Ho al-zato la destra, senza esitazioni. C
hi è diventato adulto nel Novecento ha abitato un tempo più facile. Era un bimondo popolato di bicose, e noi bipedi implumi si viaggiava in bicicletta, in bi-plano o sui binari dei treni e dei tram. L'univer-so era fondato sull'immensa potenza del 2: la coppia era la struttura portante e il motore se-greto del mondo. Tutto era doppio: coppie op-posti in lotta tra loro - allora si chiamava dia-lettica - mettevano in moto il divenire e gli da-vano un senso. Era incominciata come una cosa seria, sacra, pitagorica: bene e male, luce e te-nebre, anima e corpo, angeli e diavoli, ma poi si svaccò, specialmente in Italia.
Una moltitudine di microscontri - guelfi e ghibellini, pisani e fio-rentini, tolemaici e copernicani - sostituì e imper-sonò l'opposizione originaria finché, a fine Ot-tocento, lo scontro si stabilizzò nell'accoppiata destra sinistra. In Italia il confine fu tracciato di continuo, decine di volte, fino al ridicolo: monarchia o repubblica, Corriere o Repubbli-ca, Dc o Pci, Don Camillo o Peppone, Coppi o Bartali, Rivera o Mazzola, Milan o Inter, Mina o Vanoni, proletari o padroni, romanisti o laziali, sfruttati o sfruttatori, indiani o cowboy, Usa o Urss, Rai o Mediaset.
Si poteva fare confusione, ma la distinzione di base era salda: chi era di destra amava l'ordine e la gerarchia; chi era di sinistra il cambiamento e l'uguaglianza; i primi erano ricchi, in genere; i secondi più poveri; la prima difendeva i padroni (quindi, i forti); la seconda gli schiavi (quindi, i deboli).
Si viaggia-va su un binario che pareva immutabile, e inve-ce il mondo si trasformava e mischiava inces-santemente le carte: per paura di un peggiora-mento chi voleva il cambiamento si spostò sulla conservazione, chi proclamava l'uguaglianza rivalutò il merito e chi predicava l'ordine si mise a condurre vite disordinatissime. Non ci si ci capiva più niente.
Poi, nel 1989, a sinistra i muri crollarono.
Ho salutato l'agopuntore e sono uscito per strada, ma riuscivo a camminare soltanto dirit-to. La via di casa era un mistero, figurarsi quel-la per le periferie. I primi a intuire lo spaesa-mento furono i test estivi dell'Espresso, negli anni Ottanta. Per sapere se eri di destra o di sinistra dovevi scegliere tra slip o boxer, doc-cia o vasca, taleggio o stracchino. Ci si aggrap-pava alle cose, per non cadere nel vuoto. Anche Giorgio Gaber trasformò Destra-Sinistra in un inventario: minestrone, collant, blu jeans, pi-sciate in compagnia, mortadella e nutella era-no di sinistra, mentre alla destra si attribuiva-no minestrina, reggicalze, Si viaggiava su un binario giacca, cula-tello e ciocco- che pareva immutabile, e lata svizzera. invece il mondo si Le cose sosti-tuivano le trasformava e mischiava idee' "e "In incessantemente le carte c'erano più. Ed erano tutte cose marchia-te, un'incessante e insensata sfilata di loghi: dopo Alfa contro Lancia e Coca contro Pepsi, proliferarono Explorer contro Netscape, Mi-crosoft contro Apple, Nike contro Adidas, Goo-gle contro Yahoo!, Tim contro Omnitel, iPhone contro Samsung (o Huawei). Mandrie di loghi vagavano allo stato brado, in una pseudo guer-ra di tutti contro tutti, scoppiata chissà quando e chissà perché, con l'unico scopo di fare più soldi. Il bimondo era diventato un plurimondo. I due blocchi si erano moltiplicati: miliardi di poveri incominciarono a reclamare un posto alla tavola di milioni di altri, le classi non si vedevano più, erano diventate mille oppure nessuna. (segue a pagina due)
Quella strana idea di popolo
L'errore di pensare che la sinistra oggi, non potendo più essere popolare, debba essere populista. Rousseau non aiuta a capire, la Rivoluzione francese un poco sì
(segue dalla prima pagina)
Intanto, zitti zitti, i ricchi diventavano più ricchi, e tutti gli altri più poveri. La destra, naturalmente, restò immobile. La sinistra tentò di adeguarsi, di cambiare, si apri al mercato pur di salvare il pro-gresso oppure si chiuse al progresso pur di salvare il lavoro, ma cosi facendo si perse, si scisse, esplo-se in frammenti, e adesso nessuno sa più dove sia. Per tornare a casa, dovevo imparare da capo a svoltare. Mi sono messo a cercare la sinistra nei programmi dei candidati alle primarie del Pd. Ne ho analizzato la lingua e ho frugato nel lessico del-le tre mozioni, senza trovare nulla o quasi. Per limitarsi alla mozione del vincitore, Nicola Zinga-retti: su 7.471 parole utilizzate uguaglianza non era mai nominata e nemmeno disuguaglianza, non c'e-ra neppure progresso, ma ho trovato un progressista (Prodi), mancavano comunisti, socialisti, socialdemo-cratici e derivati, l'aggettivo sociali compariva due volte, come libertà, solidarietà, ingiustizie (giustizia, invece, l'ho trovata tre volte) e diritti (ma mai civili).
Di rivoluzione c'era solo quella delle donne, che ave-vano otto citazioni. I giovani sei. Sette parole deri-vavano da povertà, ma c'era un solo i ricchi. La pa-rola più evocata era cambiamento (e affini, con 16 citazioni), un segnaposto generico per quello che una volta si chiamava progresso. Ma questa timida fede nell'avvenire era smentita dall'insistenza con cui, nella mozione di Zingaretti, comparivano con-cetti negativi, a ulteriore dimostrazione che - co-me diceva quel tale - il futuro non è più quello di una volta. Di fronte a un mondo ostile l'atteggia-mento più saggio è la difesa. Destra compariva quattro volte. Sinistra solo due. Rabbia e paura ave-vano due citazioni, come sicurezza. Protezione una. Il lavoro era citato sette volte, precari e lavoratori due, ma non c'erano operai, contadini, sfruttati, braccianti. E il lavoro, con tutto il rispetto per l'ar-ticolo 1, non è mai stato eccitante. Ho rintracciato otto cittadini, ma neanche una cittadinanza, proba-bilmente per non evocare il reddito di (sia detto in un inciso: cittadinanza è una parola più bella di inclusione perché esprime il riconoscimento di un diritto e non una concessione che viene dall'alto). Quanto al popolo, l'ho letto soltanto due volte, e sempre contrapposto all'élite. Il patrimonio storico e la fonte dell'egemonia culturale della sinistra era evaporato, come neve al sol dell'avvenir. Le vecchie parole della sinistra erano scomparse, senza essere rimpiazzate da parole nuove.
Vuoi vedere, mi son detto, che per ritrovare la benedetta sinistra prima bisogna definire popolo e rivolgersi a chi questa parola la usa a man bassa? Vuoi vedere che, davvero, oggi, per essere di sini-stra, non potendo più essere popolari, bisogna es-sere populisti? Con sprezzo del pericolo, mi sono dedicato a scrutare i post e i commenti del sito da cui si accede alla piattaforma delle piattaforme, detta Rousseau. Richiami alla Rivoluzione france-se nessuno, alla ghigliottina parecchi. Il comples-so armamentario teorico del marxismo - le classi in lotta, l'alienazione, la teoria del plusvalore, il senso e la razionalità della storia, l'idea di un'u-manità totale, felice e liberata - giaceva a brandel-li, inghiottito e brutalmente semplificato dall'op-posizione tra colpevoli e innocenti, nemici e amici, capri espiatori e linciatori. Nei commenti impaz-zava la famigerata figura del radical chic, etichet-ta ormai applicabile a chiunque: cooperanti e pro-fessori, miliardari e studenti di filologia romanza, accademici e maestri elementari, riccanza e pove-ranza. Un po' come nell'Urss si diceva rinnegato.
Alla fine, mi son chiesto, ma questo popolo chi definisce esattamente? Quali esseri umani ne fan-no parte e quali ne sono esclusi? Chi ne traccia i confini? E' un concetto che ha ancora senso nel plurimondo? Nel bimondo il popolo sembrava armonico e compatto, più felice che rabbioso. Mi ci portavano spesso, da bambino, alla Casa del popolo di Monta-retto, in Liguria, e mi piaceva tanto. Era squadrata e sgraziata, e lo è ancora, quasi un abuso edilizio, ma da ogni mattone, trave e piastrella trasudava la forza e la voglia di chi l'aveva costruita. Dai muri mi guardavano, eroici e paterni, Che Guevara e Ho Chi Min, Gramsci e Pertini, perfino Luigi Longo, e forse sono ancora li. Popolo è una parola che ho amato moltissimo, con quel suo suono buffo di pol-po rotondo che può accarezzare tutti. E ancora og-gi piango quando, in Fuga per la vittoria, il popolo, cantando La Marsigliese, libera la squadra che gio-ca contro i nazisti. Ancora oggi mi commuovo quando i poveri scoppiano a ridere in quel gran film dimenticato che è I dimenticati di Preston Sturges. Ogni anno riguardo Miracolo a Milano.
Mi chiedo, però, sempre più spesso, se la parola popo-lo non sia un inganno che nasconde in sé un germe autoritario. E' una parola ambigua perché da una parte designa i poveri, gli esclusi, dall'altra la mol-titudine che sostiene il potere. Si distingue dalla élite, ma la legittima. E' la fonte della rivoluzione, ma anche della conservazione e della restaurazio-ne, e lo è contemporaneamente, di volta in volta, a seconda dei tempi perché è sempre un'élite a creare il popolo, a evocarlo e tracciarne i confini. Quando il popolo ricompare, una nuova dite vuole sostituire la vecchia. Nella sigla SPQR, Senatus perpolusgv.e romanus, il Senato è distinto dal popolo che, però, comprende soltanto una parte dei romani, non le donne e gli schiavi, per esempio. La radice è la stessa di plura-lità, più, e pieno. Deriva dal latino populus che a sua volta proviene dal greco plethos che significa "fol-la", "moltitudine", ma esprime l'idea che le molti-tudini possano essere definite, delimitate, quasi recintate. Dicono che l'etimologia derivi dalla ra-dice indoeuropea -par o -pol che esprime l'idea di riunire, mettere insieme. Ma per farlo bisogna espellere chi non è compreso. Il popolo sono tanti, mai tutti. E' la maggioranza che cancella la mino-ranza, i servi della gleba, i fuori casta e i senza diritti come i privilegiati. E' una parola che dice noi siamo tutti e gli altri nessuno, oppure nemici che non devono esistere. E infatti l'invito di Mani "proletari di tutto il mondo unitevi" è dimenticato. La storia umana è una lotta per decidere chi deci-de l'insieme: i confini del popolo, della nazione o della razza, e l'origine del potere. Il contrario di popolo, forse, non è individuo, ma umanità. Frugare nel populismo, quindi, era una strada sbagliata. Per un eccesso di zelo, ho cliccato con-trovoglia sul logo della piattaforma ben sapendo che quel figuro, Jean-Jacques Rousseau, è un filo-sofo che ha suscitato in me, fin da ragazzo, un'anti-patia pari soltanto alla noia che provavo nel leg-gerlo. Tutto l'Emilio mi sono dovuto pappare, a vent'anni, i miei anni più belli. Fu il più reaziona-rio tra gli illuministi, uno che odiava il progresso ancora prima che il progresso iniziasse. La civiltà, per Rousseau, è degenerazione, allontanamento dall'età dell'oro in cui eravamo tutti buoni selvag-gi. Perché un altro tema attraverso cui cercare la sinistra è la concezione del tempo e della storia, che può confermare o negare l'idea che gli uomini, individualmente e collettivamente, possano mi-gliorare il mondo in cui vivono. Rousseau ha semi-nato nella sinistra, soprattutto italiana, un germe di nostalgia per il passato, di rifiuto del presente e di diffidenza nel futuro; il seme si piantò anche in Marx che descrive la fine della storia - la società senza classi - con tratti molto simili alla sua origi-ne mitica, un'epoca d'oro mai avvenuta in cui la proprietà privata non era ancora stata inventata. L'idea di un tempo ciclico che si riavvolgerà su stesso fino a tornare all'inizio, è implicito anche nel concetto di rivoluzione che significa compi-mento di un cerchio, non sua interruzione. E cosi, parallelamente alla fede nel progresso, cioè all'i-dea che gli uomini possano fare, e non subire, la storia, dentro la sinistra agisce da sempre anche l'impulso contrario, quello a conservare, secondo la concezione pessimista secondo cui il mondo peggiori invece di migliorare. (segue a pagina tre)
La fede nel progresso e l'impulso contrario: aggrapparsi al passato. La crisi della sinistra nella incapacità di immaginare il futuro. I princìpi politici fondanti. La triade della Rivoluzione francese e il mistero della fraternité, che però è la chiave per capire anche oggi che cos'è la sinistra
<segue dalla seconda pagina>
In Italia questa corrente è più forte che altrove: scorre nella scomparsa delle lucciole di Pasolini (le lucciole ci sono ancora, la Montedison no), nell'Al-bero degli zoccoli di Olmi, giù giù fino a Beppe riposando sull'illusione che una volta si stava me-glio, anche se non è vero, e che per salvarsi occorra aggrapparsi o restaurare il passato. All'origine del-la crisi del modello ciclico o progressivo della sto-ria c'è anche, forse, la fisica moderna che ha trasfor-mato il tempo in un campo della massa, incline a curvarsi, quindi a deformarsi.
Non si tratta di rifiu-tare la nostalgia, ovviamente, ma di non farne un programma politico. Neppure l'ecologia è immagi-nabile senza un futuro. Nell'Arcadia le fogne non c'erano, figurarsi i depuratori.
Ma se la sinistra non è protesa in avanti, verso cosa è protesa?
Se si tratta di ritornare al passato è molto più attrezzata la de-stra. Insomma, continuavo a girare in tondo, come un elettrone smarrito. Dopo tanto cercare, della sini-stra non avevo trovato che tracce confuse.
Vagavo smarrito per la città, ubbidendo alla strategia che mi aveva consigliato l'agopuntore: "Se non sai sini-stra dov'è, ma destra di più, tu pensa a destra e poi vai parte opposta".
E' quello che faccio da mesi, for-se da anni: se la destra evoca il popolo, io dico élite, se dice patria, io dico mondo, se dice pacchia, io dico tragedia. Però, non mi basta: la sinistra non può essere il riflesso uguale e contrario della de-stra, una reazione difensiva: ha il dovere di immagi-nare e raccontare mondi più belli e di provare a costruirli, altrimenti il futuro non c'è.
Non può dire "abbiamo sottovalutato la paura", deve inventarsi un modo civile di garantire la sicurezza, non deve "tornare nelle periferie" perché "le periferie", giu-stamente, non hanno voglia e bisogno di ricevere delegazioni: deve immaginarle, le periferie, capire come intende trasformarle e provarci.
 E deve trova-re una parola migliore di "inclusione", visto che "cittadinanza" e "dignità" sono già state prese.
Esi-ste un'espressione più deprimente di "salario mini-mo garantito"? Quale pazzo masochista potrebbe galvanizzarsi per un "salario" - parola antica che evoca sudore, fatica, schiavitù, antichi romani e braccianti-che per di più è "minimo"?
La crisi del-la sinistra è anche una crisi linguistica che nasce dall'incapacità di immaginare e nominare il futuro. Chi ha poco oggi e non può sperare niente domani segue chiunque gli prometta qualcosa. Ma anche io ero in crisi. Il mio girovagare si avvol-geva su se stesso. Di svolta in svolta, rifuggendo tut-to ciò che puzzava di destra, mi sono ritrovato al punto di partenza. Ero entrato in un circolo vizioso. Infatti ho alzato gli occhi e c'era l'insegna di un cir-colo del Pd.
Poi ho pensato che in un solo caso a un uomo di sinistra è permesso tornare indietro. Quan-do si perde la strada e ogni decisione si dà nella forma del bivio indecidibile, l'unica cosa da fare è ripartire da capo, cercare l'origine, osservarla e ri-mettersi in cammino. Dovevo riandare all'istante in cui l'alternativa tra destra e sinistra si manifestò per la prima volta.
Era il 5 maggio 1789, ventinove anni prima che Karl Marx nascesse e trentadue pri-ma che Napoleone morisse. A Versailles si raduna-vano gli Stati Generali per varare la Costituzione e decidere sul veto del re. La struttura dell'assem-blea era ancora verticale, com'era sempre stata: il re sedeva in alto, sul trono, la regina al suo fianco, sotto stava la corte, poi il clero e in fondo alla sala, sui seggi più bassi, il Terzo Stato, composto da bor-ghesi, contadini e operai. La discussione durò fino all'11 settembre, ma già il 28 agosto, quando si inco-minciò la discussione sul veto del re, la forma spa-ziale, quindi gerarchica, dell'assemblea si era dis-solta. La piramide era franata perché i 1.145 depu-tati avevano preso l'abitudine di raggrupparsi in zo-ne diverse: a destra i 375 favorevoli a mantenere il potere regio di veto, a sinistra i 673 che l'11 settem-bre avrebbero votato per la sua abolizione.
La di-stinzione tra destra e sinistra implica, insomma, l'u-guaglianza politica degli uomini, il loro uguale di-ritto ad esprimersi sulla società in cui vivono, sulla propria vita. Negare questa differenza, come si fa oggi, significa negare il principio politico su cui si basa la democrazia moderna.
L'agopuntore sarebbe stato orgoglioso di me, avevo trovato la prima parola, ed era lì da sempre, pronta per essere colta: Égalité.
Anche la seconda bastava raccoglierla: Liberté.
L'uguaglianza è nulla se non si accompagna alla libertà, cioè al diritto di ognuno di essere uno e non di qualcuno. Non può esserci uguaglianza senza libertà.
La triade della rivoluzione francese si stagliava maestosa: Egalité, Liberté, Fraternité (motto a cui nel 2015, in un post sul Blogdellestelle, l'attuale sottosegretario di Sta-to agli Affari esteri Manlio Di Stefano ha simpati-camente aggiunto Affancidé).
Chi era stato il genio che aveva accostato le tre parole? Ho svolto più approfondite ricerche. Sull'origine dei primi due termini gli storici sono concordi: compaiono nella Dichiarazione dei diritti dell'uomo emanata il 26 ago-sto 1789, due giorni prima che la struttura pirami-dale del potere crollasse. L'origine di Fraternité, invece, è molto più oscura. C'è chi la fa risalire a un discorso di Lafayette, chi a un testo mai pubblicato di Robespierre, chi a un saggio del 1774 di Marat. E infatti, ancora oggi, la fraternità è misteriosa: se ne sta lì come un eccetera, a chiudere in rima la terzi-na, ma senza un'evidente necessità, quasi fosse un rimasuglio spirituale di echi massonici e cristiani, buonisti si direbbe oggi. E' una parola lontana dal-l'attitudine laica, quasi scientifica, delle prime due. Che ci sta a fare? Serve davvero a distinguere destra e sinistra? Uguaglianza e libertà sono ob-biettivi, la fraternità è un'intenzione. Può essere un valore politico? Nel corso della sua storia la sinistra ha oscillato tra Uguaglianza e Libertà: quando ha privilegiato la prima ha calpestato la seconda e quando si è sbilan-ciata sulla libertà ha dimenticato dell'uguaglianza. Nel primo caso ha prodotto infelicità di massa, lavo-ro schiavo e milioni di morti. Nel secondo ha asse-condato gli spiriti animali del capitalismo, cercan-do di attutirne gli effetti. Per ritornare sinistra deve trovare un nuovo equilibrio. Questo equilibrio è la Fraternità, senza la quale le altre due non potrebbe-ro mai stare insieme. Perché la fraternità è la fatica che permette di non sbilanciarsi, di non preferire la libertà del più forte al diritto del più debole (o scar-so, o stupido, o stronzo). E' lo sforzo di considerare, cristianamente, ogni uomo un uomo, quindi un fra-tello perché senza considerarsi fratelli è impossibi-le riconoscere il diritto all'uguaglianza e alla liber-tà altrui. L'illuminismo fu rivoluzionario in questo: nel contrapporre all'idea di Hobbes che l'uomo fos-se lupo dell'uomo, quindi all'accettazione del so-pruso come legge della società e della storia, il biso-gno di credere e fidarsi degli altri, e di farlo senza appellarsi a Dio, ma come una libera scelta, una scommessa e una speranza, non importa se destina-ta a fallire. La fratellanza è un'intenzione, non può essere acquisita per sempre. Va creduta ogni gior-no. L'utopia della sinistra, per me, è tutta qui. Che poi la rivoluzione francese sia finita nel sangue e che il marxismo abbia circoscritto la fratellanza al-la classe sociale, ai compagni, trasformando la sto-ria in uno scontro perenne, non è che la riprova del fatto che senza fraternità, gli esseri umani sono de-stinati a essere soli e a scannarsi. Oppure a riunirsi in tribù- e un effetto del web è produrre bolle triba-li. I fratelli si uccidono dai tempi di Caino e Abele, Romolo e Remo, ma accettarlo come legge della sto-ria - come fa la destra - vuol dire rinunciare alla speranza e all'idea del progresso. Significa accetta-re che l'umanità sia condannata per sempre. Mi guardavo intorno nella strada, guardavo i pas-santi. Non erano belli, sembravano stanchi, incaz-zosi, distratti. Uno non si sceglie i fratelli che ha. Li può criticare, insultare, ci può litigare, ma può sce-gliere se fidarsi e correre il rischio, anche se sono rom, nigeriani, tassisti leghisti, elettricisti maschi-listi, interisti, fascisti. Sempre più spesso mi ritorna in mente la frase di un romanzo molto bello e po-chissimo noto - Il paese dell'acqua di Graham Swift: "'E non dimenticare', diceva mio padre, come se si aspettasse che da un momento all'altro partissi per andare a cercar fortuna nel vasto mondo, 'che qual-E' la fraternità che rende universali uguaglianza e libertà, trasformandole in diritti umani che valgono per qualsiasi condizione, intelligenza e paese. E' la fratemità che vieta di recintare il bene dentro i confini della tribù, della classe e della famiglia, confini che escludono e respingono gli altri qualsiasi cosa tu apprenda sugli uomini, per quanto cat-tivi siano, ognuno di loro una volta era un bambino piccolo che succhiava il latte della mamma..."'. Sve-nevole, molto, però ci penso lo stesso. Retorico, an-che, lo so, ma senza retorica che ci stiamo a fare nel mondo? E' la fraternità che rende universali ugua-glianza e libertà, trasformandoli in diritti umani che valgono per qualsiasi condizione, intelligenza e paese. E' la fraternità che vieta di recintare il bene dentro i confini della tribù, della classe e della fa-miglia, confini comodi che necessariamente esclu-dono e respingono gli altri: il popolo, la Nazione, la razza. E' la fraternità che fa finire le guerre anche se poi ricominciano, come fece Mandela quando trovò il coraggio di fare la pace. E' la fraternità che riconosce che gli altri sono altri, non soltanto amici o nemici. Ero a un bivio e, finalmente, potevo sce-gliere se andare a destra, e accettare l'idea che gli altri siano pericolosi, oppure a sinistra e fidarmi. La sinistra, forse, è la fiducia negli uomini, che è sempre una scelta, un rischio che puoi correre o no. Dopo avermi sfilato l'ultimo ago dal collo, l'agopun-tore cinese, scrutandomi, aveva pronunciato la dia-gnosi: "E' sempre questione di distribuire energia", ha detto, "di riequilibrare parte debole e forte del corpo". Fratelli, per la sinistra riequilibrare le par-ti vuol dire migliorare l'intero.
Giacomo Papi

Giacomo Papi ha appena pubbicato "licenziamento dei radical chic" (Feltrinelli, 2019). Tra i suoi ro-mansi"1fratelli Kristmas" (Einaudi, 2015). Ha lavo-rato per Diario e collabora con il Post. Dirige laseuola di scrittura Bellevitie a Milano, dove è nato nel 1968.

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