Fernando Manno, SECOLI FRA GLI ULIVI
Assolviamo a un impegno che con noi stessi avevamo preso da tempo
— occuparci di Secoli fra gli ulivi di Fernando Manno — ora che Fernando Manno
è morto. E quanto dell'indugio ci dolga non sapremmo mai dire, anche se le
ragioni che di solito ritardano una nota critica, questa volta non ci
soccorrano che scarsamente. E' forse che delle cose più vicine a noi riesce più
difficile parlare con quel tanto di distacco che occorre : e Secoli fra gli
ulivi, ricordiamo, ci toccò alle radici dell'esser nostro. Occorre allora che
la prima emozione intensa si plachi per potersi fare parola. E all'Amico mai
conosciuto, ma fraternamente vivo, esprimiamo ora quella gratitudine che da due
anni silenziosamente gli portavamo.
E' il libro di un poeta della propria terra. Come noi
intendiamo che debba essere ogni autentico libro : individuale e corale,
elementare e complesso, nato da un amore sicuro, fedele, intelligente, di
quella intelligenza che soltanto l'amore genera. E nel quale lo stesso
disordine strutturale (più d'apparenza che di sostanza : ché la sostanza è
nella fondamentale unità del sentimento) dà più vivida e genuina imagine di
vita.
Tornando ora a sfogliarlo, il nostro pensiero corre
spontaneo all'antico mito di Ulisse. Ulisse che ritorna a casa dopo le
molteplici peripezie che ne lo hanno tenuto lontano; ritrova la sua terra : e
la benedice, perché soltanto in essa, finalmente, ha ritrovato se stesso : baciò
la sua pietrosa Itaca Ulisse...
Anche quella, come la nostra, era una terra pietrosa. Ed
anche Fernando Manno, nella sua terrena giornata, ebbe l'animo avido,
irrequieto ed errabondo dell'Ulisside. Ma occorre che le cose più nostre noi le
allontaniamo da noi, a una stagione della nostra vita, e le perdiamo quasi,
perché possiamo poi un giorno, ritrovandole, conoscerle veramente e trovare in
esse il senso stesso di noi. Il libro di Manno ha per noi questo significato di
fondo; è la storia di un'anima che, all'insonne ricerca di se stessa, si
ritrova infine, si riconosce e si accetta nella riassunta dimensione della
propria terra. L'antichissimo Salento, immutabile e imprevedibile, con la ossessionante
orizzontalità del suo paesaggio (« Il cipresso, i Salentini lo evitano come
albero morto... »; e quell'acutissima osservazione sui campanili delle chiese:
« ...sono, per lo più, campanili falliti... »), con quei suoi abitanti, i più
sconosciuti forse e i meno conoscibili d'Italia, che stan poco in casa ed amano
la strada, la piazza, l'Agorà, collegandosi ciò col loro culto per la pura
intelligenza della conversazione (« ...il salentino gode dello spettacolo,
della festa dell'intelligenza... »); bonari e scettici, disincantati e un po'
anarchici, antichissimi e ingenui : tutto questo ripassa davanti ai nostri occhi
illuminato da una luce remota e nuovissima. E il tono dell'A. è cordiale
insieme e commosso : la commozione, appunto, dí chi, avendo girovagato per il
mondo, ha poi fatto la scoperta di sé nel punto di partenza (quasi ci verrebbe
fatto di pensare ad Agostino : In interiore homine..., se la trascendenza non
fosse qua esclusa del tutto).
Il libro nasce da questa turbata e prorompente felicità. Sono
« pagine di sensazioni e di memoria » (e il concetto verrà ribadito alla sua conclusione
: « ...questo è un libro di memoria. »); una sorta di vagabondaggio senza
programma prestabilito : appunto come di chi, ritrovata nella propria terra la
propria essenza eterna, non fa programmi (non può farne), ma vi ci scorazza
ebbro, e va sicuro di non sbagliare, perché è ormai nel proprio elemento naturale,
a casa sua : se stesso. Di qui il piglio lesto e sicuro, d'un imprevedibile che
si colloca per sempre, infine, in un'architettura armoniosa, in un limpido
disegno. Prendete le belle pagine sul Barocco leccese, sul suo Barocco : « Esso
non è pensiero. E' senso », dice Manno; « In fondo è naturalismo », nota; «
opera artigianesca e corale, antica e comune » (ma d'un popolo che ha finissimo
il gusto del bello). E guardate con quanta acutezza, fra i vari Barocchi:
spagnolo, romano..., puntualizzi quello salentino; che, poi « più veramente,
barocco non è, e forse, per il suo sensualismo naturalistico e l'intimo
paganesimo, è l'antibarocco ».
Evidente dunque la sostanza lirica dell'opera. Marmo è un
poeta. E come gli autentici poeti cerca sempre e dovunque — e la trova — la verità
del proprio cuore e del cuore della sua terra. Quanta intelligente simpatia
quando si parla dei nostri cafoni, dei suoi cafoni; la gente più antica e
verace della sua provincia, coi suoi riti, le sue favole, le sue superstizioni.
Superstizione? - si domanda. E risponde : « Superstizione sia! che viene da
intuizioni remotissime, stillanti misterioso coraggio, legate a una continuità
della vita che non ha bisogno d'attingere a filosofie e forse di tutte è più
convincente ». Non pare di assistere alla divina parabola del Figliol prodigo?
Il disegno sostanziale e forse originario dell'opera si
rompe nella parte centrale del libro (ma l'abbiamo detto : in fondo non poteva
essercene uno). E nei bozzetti come La morte, Ciottoli del greto, Novilunio, c'è
un po' il tono della fiaba, d'una realtà fiabesca. Ma è la realtà nostra, nel
suo fondo ultimo, che è così: chiara e inesplicabile, gioiosa e malinconica. La
realtà del suo sentimento. Fra il saggio, il bozzetto, la novella; e il lirico,
il patetico, l'umoristico, si ha come la sensazione d'un vagabondare inesausto
attorno ad un tema unico che non viene mai meno : se stesso — la propria terra,
la propria terra —. so stesso...
Prendete « Il fraticello », pagina di francescana purità e
bellezza, degna dei Fioretti, dove non sai più se ammirare la rievocata figura
dei fraticello umilissimo o l'anima di chi ha saputo così stupendamente rievocarla.
E col paesaggio, con gli uomini, anche le bestie, le sue
bestie salentine, incomparabile fauna. « Nata e cresciuta con noi. Come la terra,
gli alberi, le città, noi stessi, parte del paesaggio salentino ». Scendiamo sempre
più alla fonte del libro. Che è un libro di confessioni. « E noi abbiamo i
nostri animali puri. O meglio, la nostra terra sub specie animale ». E' questo
senza dubbio uno dei saggi più felici (l'A. rivela appunto nel saggio le sue
doti più schiette). Sfilano davanti a noi l'orbettino e la secàra, il geco, il
millepiedi, la civetta, la capra, la lumaca, il ramarro, la formica, le cicale
(« sono l'ugola degli oliveti... »); e la gazza (« nera, col bavaglino bianco
sul petto, impettita e curiosa... »), la tarantola coi suoi magici poteri, « lu
pupiddhu » (« questo trovatello dei mari dei Sud... »).
E con la fauna il firmamento fossile. E gli arnesi
dell'uomo; gli strumenti del suo lavoro. E la sua inconfondibile, bella,
armoniosissima parlata.
La conclusione del libro è, ovviamente, la conclusione del
ritratto dell'Autore stesso : « Un punto del mondo. E' il Salento ». Ma è anche
lui. La commossa, trepida rievocazione delle sue esperienze, della sua vita,
errabonda, avida, ansiosa. Fino a questo ritorno entro la propria matrice : « E
ci riconoscemmo interi, ci avvertimmo fatti come un fiume in cui dalla sorgente
fluiva indistruttibile tutto: noi stessi e gli altri e il paesaggio e gli
animali e le cose. I secoli ».
Poteva andare oltre? Il circolo s'era conchiuso. E la morte
repentina lo colse, riconsegnandolo per sempre, « ammaliato di vita », a quella
eternità che finalmente aveva trovato.
L'eternità della civiltà nostra : quella medesima che Lino
Suppressa, poeta anche lui della nostra terra, ha illustrato con mano forte e nervosa,
in una serie di disegni incisivi, modernissimi, che ci hanno dato come ben
poche altre volte ci era accaduto il senso profondo delle cose nostre e la
universalità loro : chiese che palpitano sotto la vertigine dei cieli,
strapiombi di cave tagliati dalla fatica umana, contadini di piombo schiacciati
in sonno contro le zolle rosse (un disegno che ha il prodigio del colore),
sacre rappresentazioni di ulivi, santi profani e bestie santificate. Migliore
commento non poteva darsi a un'opera così intensamente scavata come quella di
Fernando Manno. Ma Lino Suppressa ci ha dato anche una inconfutabile
dimostrazione (se per conto nostro ne avessimo avuto mai bisogno): che l'arte è
cultura, e ín quanto tale non mai scindibile da quelle esigenze di totale
armonia che sono alle radici della nostra umana natura e della nostra
indistruttibile spiritualità. Soltanto un artista autentico poteva far ciò.
Suppressa lo ha fatto. E a lui e a Fernando Manno noi siamo grati, saremo grati
sempre, di questo limpido dono che ci compensa di tanti altri amari frutti che
ci tocca d'ingoiare quotidianamente.
BRUNO LUCREZI
Commenti
Posta un commento