Diario del Viaggio nelle "Tagghiate te Marcu Itu" del 1 giugno 2016 ore 17.00 - 19.00


All’interno del centro abitato di Lecce, nella sua porzione meridionale in prospicenza alla via di San Cesario di Lecce è qui che c’è il fantastico mondo del Miocene salentino.
Il Miocene è un periodo della scala dei tempi geologici che va dai 24 milioni di anni fa ai 5 milioni di anni fa ed è un periodo molto importante per l’evoluzione del bacino del mediterraneo tant’è che si sono formati proprio nel Miocene gli appennini da un lato e le Ellenidi e le Dinaridi dall’altro. Per quanto riguarda la geologia della Regione Salentina questo è un periodo importantissimo perché è proprio nel Miocene che nasce la Pietra Leccese. Per scoprire come era il paesaggio salentino nel periodo miocenico si può percorrere il percorso “te le tajate te Marcu Itu”.
Le “Tajate te Marcu Itu” sono a su della linea ferroviaria che taglia la città di Lecce e hanno una espensione superiore ai 20 ettari.

La presenza delle cave è segnalate in alcune carte del 1800 realizzate per la costruzione della strada Lecce – San Cesario di Lecce e già alla fine del 1800 era quasi completamente abbandonate tanto che il Comune di Lecce decise di utilizzarle in parte come bacino di stoccaggio delle acque meteoriche.
Questa decisione determinò un degrado di questa porzione di territorio poiché per la presenza di quelle acque si verificarono alcuni episodi di malaria causa per la quale non furono più usate per lo stoccaggio.
In seguito si continuò a coltivare tali case sino al 1950 con metodi tradizionali. Nei decenni successivi è stata progressivamente abbandonata e l’area di cava è stata utilizzata come terreno agricolo principalmente con la messa a dimora di agrumi.

Ma come avveniva la coltivazione della pietra leccese? Ovvero come si cavava la pietra a lecce? Le cave di pietra leccese a differenza di quelle di tufo che sono sia ipogee (sotterranee) che superficiali sono tutte a cielo aperto e si dice “a fossa” cioè con le ripide pareti sub verticali. Le linee che possiamo osservare lungo la parete non sono legate alla stratificazione della roccia ma all’attività di estrazione dei conci lungo file e alle varie profondità di estrazione.
L’attività di coltivazione nelle “tajate te Marcu Itu” è andata avanti sono all’epoca moderna poiché i segni sulla roccia indicano che sono state utilizzate delle seghe circolari.
Le seghe circolari sono su apposite rotaie ed effettuano un taglio verticale nel terreno ripetuto parallelamente ogni 25 – 30 centimetri e perpendicolarmente ogni 50 centimetri. Dopo di che, con una sega sempre circolare, ma posta orizzontalmente, si effettua lo scalzamento del concio.
I cavatori più anziani erano degli eroi di quei tempi andati poiché l’operazione appena descritta si faceva un tempo con degli strumenti detti “ZUECCU” che erano dei picconi aventi un manico molto lungo e la lama posta parallelamente al manico per effettuare il solco verticale e parallelamente al manico per effettuare quello orizzontale.

Altri strumenti tipi erano IL CUNEO detto “LU CUGNU”; LA MANNAIA  detta “LA MANNARA”; LA CHIANULA E LU CHIANETTUNE  ovvero la pialla; LA SERRA ovvero la sega e ancora LU RATTACASU cioè la grattugia che erano tutti strumenti che servivano anche per lavorare il concio che una volta estratto veniva posto sul piazzale della cava in maniera tale che i muschi e i licheni potessero attaccarlo e dargli una patina protettiva rispetto agli agenti atmosferici.
L’attività estrattiva della pietra leccese ha origini lontanissime basta pensare ai Dolmen e ai Menhir la cui diffusione è curiosamente coincidente con quella degli affioramenti di pietra leccese. Anche nell’età romana la pietra leccese è stata utilizzata come nel Porto Adriano di San Cataldo di Lecce del II secolo dopo Cristo la cui struttura è costituita da blocchi di pietra leccese squadrati provenienti da cave nei dintorni di Acaia.
La pietra leccese è stata utilizzata per le costruzioni nei secoli seguenti. Accanto alla funzione costruttiva si è associata una funzione decorativa la cui esplosione è stata il barocco.
E’ opinione diffusa che l’arte barocca non si sarebbe potuta sviluppare se non ci fosse stata disponibile la pietra leccese che è tenera e facile da lavorare e scolpire.
Dal punto di vista litologico la pietra leccese è una calcarenite. La calcarenite è costituita da elementi che hanno composizione carbonatica e le dimensioni di una sabbia ovvero compresi tra 2 millimetri e un sedicesimo di millimetro. Questi elementi sono nella stragrande maggioranza dei FORAMINIFERI PLANTONICI che sono degli organismi dotati da un'unica cellula che vivono nella massa d’acqua. E’ del tutto evidente che questo sedimento si è deposto in un ambiente marino e la profondità del fondale doveva essere compresa tra i 150 e i 200 metri. La deposizione della pietra leccese è iniziata nel Miocene inferiore ovvero circa 17 milioni di anni fa ed è perdurata sino al Miocene superiore ovvero circa 7 milioni di anni fa.
Nella cava “Tajate te Marcu Itu” ma detta Tagliatelle abbiamo l’opportunità di vedere alcune delle caratteristiche della pietra leccese come ad esempio la presenza ricorrente di fossili come lamellibranche, chinodermi che concorrono ad indicare l’origine marina di questo sedimento con contenuto fossilifero.
Un’altra caratteristica comune della pietra leccese è la presenza delle bio turbazioni che sono quelle che fanno impazzire i restauratori. Queste bio turbazioni sono dovute ad alcuni microrganismi che sul fondale marino scavano delle tane che poi vengono successivamente riempite da altro sedimento che indurendosi assume delle caratteristiche differenti più resistenti rispetto alla roccia inglobante per cui l’erosione lascia queste tubazioni erodendo la roccia che le ingloba. La varietà di pietra leccese che affiora nella cava Tagliatelle è la varietà migliore, è quella che i cavatori chiamavano la varietà gentile che ha la tipica colorazione giallo paglierino, tabacco ed è quella che è stata utilizzata nella maggior parte dei casi come pietra da costruzione. In alto, laddove termina l’attività di coltivazione, possiamo vedere una varietà che non veniva utilizzata nella coltivazione che era quella che veniva chiamata la “saponara” o la “salunara”. Il nome dice tutto “saponara” perché era scivolosa in quanto conteneva minerali argillosi che la rendevano troppo tenera per l’utilizzo.
Altre varietà note sono ad esempio il “piromafo” o la “bastarda”. Il “piromafo” come dice il nome è resistente al fuoco è una roccia che ha dei contenuti in glauconite, un minerale di colore verdastro molto elevato che da una colorazione verdastra alla roccia e che indica che questi fondali marini erano interessati da una serie di correnti di fondo che erano per l'appunto l’ambiente ideale per la formazione del minerale della glauconite. Il “piromafo” veniva utilizzato per il rivestimento dei camini e dei forni.
La varietà “bastarda” è quella che si trova nella parte più alta della pietra leccese ed per la verità non si tratta proprio di pietra leccese ma di calcarenite di Andrano cioè la parte terminale del ciclo di formazione della pietra leccese che ci indica che il mare si sta ritirando e le batimetrie ovvero le profondità del bacino di sedimentazione stanno diminuendo progressivamente.
Inoltre la pietra leccese contiene all’interno gli scheletri di animali marini morti. In pratica la pietra leccese è un fondale marino di 17 milioni di anni fa in cui hanno trovato la tomba grandi animali marini.
I cetacei popolavano il mare Miocenico salentino. Il più imponente, il più maestoso di tutti è lo zigofisetere (Zygophyseter varolai Bianucci & Landini, 2006) che è un cetaceo estinto imparentato con il capodoglio. Visse nel Miocene superiore (Tortoniano, circa 7 milioni di anni fa) e i suoi resti sono stati ritrovati in Italia meridionale.
Il nome deriva dallo studioso Andrea Varola che l’ha scoperto e che ha condotto gran parte delle campagne di ricerca paleontologica degli ultimi 50 anni e a cui va il merito dei moltissimi ritrovamenti che ci sono stati nella pietra leccese.
Questo nuovo fiseteroide, infatti, rivela che la strategia alimentare che oggi, fra i delfinidi, è propria solo dell’orca è stata adottata in passato anche da altri cetacei.
In questi mari con batimetrie relativamente elevate e clima di tipo tropicale-subtropicale, non mancheranno anche inconti più “tranquilli” quali quello con il Marlin Makaira cf. nigricans Lacepede, 1802. 
L'aspetto di questo cetaceo doveva essere una via di mezzo tra quello di un'orca e quello di un capodoglio: lungo circa 10 metri, Zygophyseter era dotato di un lungo e robusto rostro, dotato di lunghi denti acuminati sia nella mascella che nella mandibola. I capodogli attuali, al contrario, possiedono denti solo nella mandibola. Il cranio di Zygophyseter era dotato di un notevole processo zigomatico (da qui il nome generico), che probabilmente ospitava l'organo dello spermaceti.
Conosciuto per uno scheletro quasi completo, questo cetaceo doveva essere uno dei massimi predatori del suo ambiente, a causa della sua taglia e delle specializzazioni del cranio. Soprannominato “capodoglio killer” dai suoi scopritori, lo Zygophyseter poteva cacciare anche prede di grandi dimensioni, in modo molto simile a quello delle orche attuali, grazie ai grandi denti presenti lungo entrambe le mascelle. È considerato uno dei fiseteridi (Physeteridae) più primitivi.
Inoltre nella pietra leccese vi sono scheletri di tartaruga marina che dovevano popolare questi mari. Un altro cetaceo è il Messapicetus longirostris (Cetacea, Ziphiidae) il più primitivo genere degli Ziphiini.
Un tempo i cavatori trovavano “le lingue di tuono” che sono denti di squali tra questi il megalodonte (Carcharodon megalodon o Carcharocles megalodon Louis Agassiz, 1843) è una specie estinta di squalo di notevoli dimensioni, noto per i grandi denti fossili. Il nome scientifico megalodon deriva dal greco e significa appunto "grande dente". I fossili di C. megalodon si trovano in sedimenti dall'Eocene al Pliocene (tra 55 e 1,8 milioni di anni fa).
Il marlin blu (Makaira nigricans Lacepède, 1802) è un grande pesce di mare appartenente alla famiglia Istiophoridae è un altro pesce presente nelle cave di pietra leccese.
Si possono trovare anche resti di tonno. Insomma osservando la pietra leccese è possibile imbattersi in resti di pesci in essa inglobati.

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