Stefano Margiotta, Pietra leccese continuazione e fine
La pietra leccese e le Calcareniti di Andrano rappresentano
le unità mioceniche cartografate nella II Edizione della C.G.I.; i rispettivi
rapporti sono di eteropia ed a luoghi di sovrapposizione delle Calcareniti di
Andrano sulla pietra leccese.
Dalla lettura, sia della Carta Geologica che delle relative
Note Illustrative, emergono chiaramente, comunque, le differenti interpretazioni
della stratigrafia del territorio rilevato da Martinis rispetto a quello preso
in esame da larGaiolli - MoZZi e narDin, particolarmente per ciò che concerne i
sedimenti miocenici e quelli plio-pleistocenici. Infatti, unendo i bordi di
fogli contigui, ma anche nell’ambito di ciascun foglio, nelle aree poste ai margini
di quelle di studio dei rispettivi autori, si osserva che le maggiori incongruenze
ricadono, di solito, lungo il perimetro di quest’ultime. Per questi motivi, le suddivisioni
stratigrafiche che emergono nella II edizione della cartografia ufficiale sono
apparse subito poco soddisfacenti e non hanno contribuito a fare chiarezza in
particolare per quanto riguarda l’attribuzione dei sedimenti miocenici rispettivamente
alla pietra leccese ed alle Calcareniti di Andrano.
Un contributo sostanziale e determinante per quanto riguarda
il rilevamento, l’attribuzione bio-cronostratigrafica della pietra leccese ed
il suo ambiente di sedimentazione verrà dato sin dagli anni ‘80 da Ricercatori
delle Università di Pisa e Siena, (Bossio et al., 1986; 1989 a; b; c; 1991;
1994; 2002) a seguito di campagne geo-paleontologiche condotte sull’area
compresa tra Otranto e Leuca (comprendente quindi anche l’area tipo delle Calcareniti
di Andrano), quella di Santa Maria al Bagno (Bossio et al., 1992) e sull’area
di Lecce (Bossio et al., 1999; 2006; MarGiotta, varola, 2004; MaZZei et al.,
2009; MarGiotta, 2006), area tipo, quest’ultima, insieme a quella di Cursi
(MaZZei, 1994; Foresi et al., 2002), della pietra leccese. Con l’integrazione
del rilevamento geologico e delle analisi micro paleontologiche questi Autori
riconoscono quattro cicli sedimentari neogenici, e cinque nella zona di Leuca.
Se in quest’ultima la pietra leccese e le Calcareniti di Andrano fanno parte di
due cicli distinti, uno del Burdigaliano – Langhiano (Tortoniano?) e l’altro
del Messiniano, nelle altre aree salentine costituirebbero duando l’esistenza
di sedimenti riferibili al Tortoniano e al Messiniano sulla base soprattutto
delle associazioni a Foraminiferi. Nello stesso periodo anche unGaro (1966)
riferisce la pietra leccese al Tortoniano. Nel 1967 Martinis istituisce la formazione
delle Calcareniti di Andrano la cui area tipo è compresa tra Marittima e
Tricase mentre la località tipo è presso Andrano. Pur riconoscendo una certa analogia
tra questa formazione e la pietra leccese, l’A. ritiene necessaria
l’istituzione di una nuova unità in quanto la formazione delle Calcareniti di Andrano,
a differenza della Pietra Leccese, presenta caratteri di litofacies assai
diversi da zona a zona.
Secondo Martinis le Calcareniti di Andrano giacciono
trasgressive e in discordanza sui Calcari di Castro e sono limitate al tetto
dalle Calcareniti del Salento, anche queste in probabile rapporto discordante
anche se non direttamente osservato. Per Martinis le Calcareniti di Andrano
passano lateralmente alla pietra leccese. Dal punto di vista ambientale, sulla
base del contenuto micropaleontologico, l’A. riconosce due diversi tipi di ambienti
di sedimentazione: uno di mare aperto ma poco profondo ed un altro “decisamente
litorale”. Infine, dal punto di vista cronostratigrafico, vengono individuate
tre associazioni fossilifere riferibili rispettivamente al Langhiano -
Elveziano, all’Elveziano - Tortoniano e al Tortoniano. Nel 1968 vengono
pubblicati i fogli 204, 213, 214, 215 e 223 della Carta Geologica D’Italia
(C.G.I.) in scala 1:100.000 e negli anni immediatamente successivi (1969,1970)
le relative Note illustrative a cura di larGaiolli (204, 214, 215), Martinis
(214, 223), MoZZi (204, 213, 214, 215), narDin (204, 214, 215).
La pietra leccese e le Calcareniti di Andrano rappresentano
le unità mioceniche cartografate nella II Edizione della C.G.I.; i rispettivi
rapporti sono di eteropia ed a luoghi di sovrapposizione delle Calcareniti di
Andrano sulla pietra leccese.
Dalla lettura, sia della Carta Geologica che delle relative
Note Illustrative, emergono chiaramente, comunque, le differenti interpretazioni
della stratigrafia del territorio rilevato da Martinis rispetto a quello preso
in esame da larGaiolli- MoZZi e narDin, particolarmente per ciò che concerne i
sedimenti miocenici e quelli plio-pleistocenici. Infatti, unendo i bordi di
fogli contigui, ma anche nell’ambito di ciascun foglio, nelle aree poste ai margini
di quelle di studio dei rispettivi autori, si osserva che le maggiori incongruenze
ricadono, di solito, lungo il perimetro di quest’ultime. Per questi motivi, le suddivisioni
stratigrafiche che emergono nella II edizione della cartografia ufficiale sono
apparse subito poco soddisfacenti e non hanno contribuito a fare chiarezza in
particolare per quanto riguarda l’attribuzione dei sedimenti miocenici rispettivamente
alla pietra leccese ed alle Calcareniti di Andrano.
Un contributo sostanziale e determinante per quanto riguarda
il rilevamento, l’attribuzione bio-cronostratigrafica della pietra leccese ed
il suo ambiente di sedimentazione verrà dato sin dagli anni ‘80 da Ricercatori
delle Università di Pisa e Siena, (Bossio et al., 1986; 1989 a; b; c; 1991;
1994; 2002) a seguito di campagne geo-paleontologiche condotte sull’area
compresa tra Otranto e Leuca (comprendente quindi anche l’area tipo delle Calcareniti
di Andrano), quella di Santa Maria al Bagno (Bossio et al., 1992) e sull’area
di Lecce (Bossio et al., 1999; 2006; MarGiotta, varola, 2004; MaZZei et al.,
2009; MarGiotta, 2006), area tipo, quest’ultima, insieme a quella di Cursi
(MaZZei, 1994; Foresi et al., 2002), della pietra leccese. Con l’integrazione
del rilevamento geologico e delle analisi micro paleontologiche questi Autori
riconoscono quattro cicli sedimentari neogenici, e cinque nella zona di Leuca.
Se in quest’ultima la pietra leccese e le Calcareniti di Andrano fanno parte di
due cicli distinti, uno del Burdigaliano – Langhiano (Tortoniano?) e l’altro
del Messiniano, nelle altre aree salentine costituirebbero un unico ciclo
sedimentario con inizio nel Burdigaliano e fine nel Messiniano.
In sostanza le Calcareniti di Andrano (ad eccezione appunto
dell’area di Leuca) sono sempre sovrapposte alla pietra leccese e solo di età
messiniana costituendo il termine regressivo del ciclo miocenico.
Nella III edizione della CGI, in scala 1:50.000, la pietra
leccese non viene cartografata né nel Foglio “Leuca” né in quello “Ugento”
(peraltro questi sono gli unici fogli rilevati). Le Calcareniti di Andrano affiorano
invece con continuità ed estesamente con giacitura trasgressiva paraconcordante
sulla Calcarenite coralligena di Serra del Mito (corrispondente al livello ad
Aturia di Giannelli et al., 1965, Miocene) ed in discordanza sul Calcare di
Altamura (Cretacico) mentre passano lateralmente alle successioni di scogliera
e di avanscogliera della Formazione di Gagliano del Capo (ricchetti, 2009 a;
2009 b).
Nelle aree tipo, la pietra leccese giace trasgressiva e in
discordanza sia sui calcari del Cretacico, sia sulla Formazione di Lecce. Il
contatto con quest’ultima è quasi ovunque obliterato da costruzioni, coltivazioni
o detriti; solo a EST dell’ospedale di Lecce, alla base della pietra leccese si
rileva una breccia dello spessore di 30-40 cm, costituita da elementi dell’unità
sottostante. Al contrario, il contatto con i calcari del Cretacico è pressoché sempre
scoperto. È ben evidente che la pietra leccese si modella solo in parte sulle
ondulazioni del calcare me sozoico o addirittura ne taglia gli strati. Il
contatto tra le due unità è netto; infatti, con non più di 2 m di sedimenti
bruni e privi di stratificazione l’unità miocenica si adagia su quella
cretacica biancastra e ben stratificata ma spesso brecciata alla sommità. In
più punti, alla base della pietra leccese è presente una breccia dello spessore
di 20-30 cm, con elementi cretacici clastosostenuti (delle dimensioni da pochi
millimetri a qualche decimetro) e matrice costituita da una calcarenite bruna.
La superficie di trasgressione sui calcari cretacici spesso è ben levigata e a luoghi
interessata da fori di litofagi. Talvolta essa presenta una spalmatura
fosfatica con sparsi piccoli noduli di apatite; in alcuni casi questo peculiare
orizzonte può raggiungere anche qualche centimetro di spessore.
La stratificazione, mal definibile, appare in banchi che
superano il metro di spessore; solo eccezionalmente essa è ben marcata per la
presenza di livelli meno competenti e più o meno marnosi, spessi da 20 a 30 cm.
I fossili (in prevalenza pettinidi ed echinoidei) sono ricorrenti anche se
sparsi; talvolta risultano frequenti le bioturbazioni a prevalente andamento
orizzontale.
Nei 5-6 m inferiori la pietra leccese è molto compatta,
tenace, di aspetto cristallino, di colore variabile dall’avana chiaro all’avana
scuro o al grigio-nocciola, con tonalità spesso rosate o verdastre; essa mostra
inoltre, per i primi 20-30 cm, sparsi noduli fosfatici e, talora, balanidi,
pettinidi e denti di pesci. Verso l’alto le biomicriti divengono con gradualità
glauconitiche. Nell’ambito di questo intervallo (noto tra i cavatori come
piromàfo) è riscontrabile una maggiore diffusione di noduli apatitici e di
fossili (tra i più comuni sono da ricordare Pycnodonte, Flabellipecten e
Amusium; diffusi anche gli Pteropodi, generalmente in modelli in gran parte
fosfatizzati), particolarmente accentuata in due livelli (ad andamento ondulato
e dello spessore massimo di 30 cm) denominati dai cavatori “linee delle cozze”.
Le biomicriti intensamente glauconitiche si infiltrano, talvolta per alcuni
decimetri, in quelle sottostanti a debole contenuto in glauconite; verso l’alto
invece sfumano gradualmente ma rapidamente alla soprastante formazione delle
Calcareniti di Andrano, rappresentata da calcareniti e calcari stratificati
(MaZZei, 1994). Fa eccezione la pietra leccese presente nel settore sud-orientale
dell’area tipo di Lecce laddove al passaggio con le sovrastanti Calcareniti di
Andrano essa si presenta (per circa 30 m di spessore) con una grana più
grossolana, colore giallo-ocraceo, stratificazione decimetrica e fossili
diffusi (in particolare bivalvi, Bossio et al., 2006).
Per quel che concerne l’ambiente di sedimentazione, da un
punto di vista generale la formazione presenta associazioni a Foraminieri
bentonici e ad Ostracodi indicanti batimetrie riconducibili alla parte profonda
della zona neritica esterna.
Non sono disponibili elementi favorevoli per documentare
l’evoluzione paleoambientale che ha portato a queste profondità a partire dalla
base dei sedimenti trasgressivi.
Certo è che l’approfondimento deve essere stato molto rapido
tant’è che campioni prelevati poco sopra la base della trasgressione mostrano
già evidenze di un ambiente neritico esterno. Da far presente poi che, laddove
sulla superficie di trasgressione vi è una spalmatura fosfatica od uno straterello
di fosfati, i primi livelli della pietra leccese non corrispondono a quelli della
base della trasgressione, come del resto già evidenziato da Bossio et al.
(2002) per l’area di Lèuca. Si rileva, infine, una progressiva ma rapida
riduzione batimetrica nel corso della parte superiore del Tortoniano e,
soprattutto, nel Messiniano basale; in conseguenza di questo trend regressivo l’ambiente
deposizionale tornò a trovarsi a profondità non lontane da quelle del limite
zona neritica esterna / zona neritica interna.
In rapporto alla estensione cronostratigrafica (equivalente
peraltro a oltre 10 M.a.) di un sedimento calcarenitico di piattaforma qual’è
quello della formazione in parola, il locale spessore complessivo della pietra
leccese (quello virtuale risultante dalla somma delle singole sezioni è di
circa 117 m per l’area di Lecce, 29 m per quella di Cursi-Melpignano; quelli
reali locali sono ben inferiori) è alquanto modesto. Ciò è l’indubbia
conseguenza dell’azione reiterata di correnti che hanno inibito a più riprese
la deposizione e/o eroso sedimenti già deposti (non a caso gli hiati sono in
genere ubicati dove la formazione è più o meno ricca in glauconite, un minerale
tipico di questi ambienti marini dinamici) determinando ripetute lacune sedimentarie
e conseguente riduzione della colonna sedimentaria (per tutti si veda in Bossio
et al., 2002). La presenza di lacune nella sedimentazione è una caratteristica generale
della formazione salentina e dagli studi dei Ricercatori toscani citati risulta
che esse sono di ampiezza variabile nello spazio e nel tempo anche fra località
vicine. In accordo con le tesi dei Ricercatori citati, sono gli studi a
carattere mineralogico e micropaleontologico di BalenZano et al. (1994 cum
bibl.; 1997; 2002) proprio sulla glauconite presente nella pietra leccese.
Questi AA distinguono due varietà di granuli glauconitici: una di colore verde
chiaro ed una seconda più scura e più evoluta della precedente. In entrambi i
casi si tratterebbe di glauconite evoluta, stadio raggiungibile in un arco di
tempo dell’ordine di 100.000 anni, in prossimità della sommità della scarpata
continentale a seguito di correnti povere di materiale terrigeno ma ricche in
ferro. A conferma di questa ipotesi gli autori evidenziano che condizione
necessaria per la formazione di abbondante glauconite evoluta, così come
osservata nel piromàfo della pietra leccese, sia una lenta velocità di
seppellimento dei granuli. Questo fenomeno potrebbe essere conseguenza non
tanto di variazioni batimetriche ma dipendente proprio dall’effetto di correnti
di fondo che contrasterebbero la deposizione del sedimento stesso.
La pietra leccese ha inoltre avuto notevole importanza in
quanto in più intervalli permeabili compresi tra altri impermeabili essa
costituisce acquiferi anche di portate considerevoli tanto da permetterne
approvvigionamenti. Uno per tutti valga l’esempio del pozzo “Cozza - Guardati”,
ubicato all’interno del centro abitato, lungo la strada per Monteroni, e che
rappresenta un importante testimonianza delle vicende storiche del capoluogo
legate all’approvvigionamento idrico (Delle rose, 2005 cum bibl.).
Lo scavo del pozzo Cozza-Guardati venne ultimato nel 1899,
constando di “due pozzi verticali nella roccia leccese, uno a sezione circolare
con metri 1.10 di diametro, l’altro a sezione quadrata con metri 4.70 di lato,
profondi circa 43.00 [… con] basi messe in comunicazione mediante un’ampia
galleria di raccolta di circa 60 metri di lunghezza, metri 3.00 di larghezza,
metri 2.50 di altezza, con superficie emuntrice della falda acquifera,
affiorante a metri 3.80 circa sopra il livello del mare di mq. 250.00” (liBeri,
1906). La buona riuscita dell’impresa venne subito confermata dalla presenza,
lungo la galleria di collegamento dei pozzi, di acque sorgentizie molto
abbondanti.
La necessità di recuperare alcune cave di pietra leccese è
stata messa in risalto da sansò et al. (2015) e recentemente, in attuazione
della legge regionale 33 del 2009 “Tutela e valorizzazione del patrimonio geologico
e speleologico”, alcune di esse (oltre all’appena citato pozzo Cozza -
Guardati) sono state riconosciute come geositi o emergenze geologiche laddove
per geosito si intende “un elemento o una porzione del territorio regionale che
dal punto di vista geologico s.l. assume caratteri scientifici distintivi
rispetto alle aree circostanti, anche in relazione ai suoi caratteri
paleo-etno-antropologici. Tale elemento territoriale testimonia a scala locale,
regionale, o globale eventi e/o processi geologici s.l., significativi, con
caratteri di rarità o di esclusività alla scala di riferimento (al contrario
dell’emergenza geologica che non presenta caratteri di unicità). Al geosito è
riconosciuto un interesse primario per la conservazione (aa.vv., 2014). Oggi
gran parte delle cave di interesse geologico/paleontologico sono abbandonate ed
in alcuni casi adibite a discariche abusive: la loro tutela e le iniziative di
valorizzazione di questi beni permetteranno non solo di scongiurare
qualsivoglia inquinamento del sottosuolo ma costituiranno inoltre fattore di
crescita culturale e quindi economica per il territorio stesso attraverso lo
sviluppo di nuove forme di turismo.








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