Il nome che ti segna
phoca_thumb_l_opera di pietro liaci |
Come sempre, quando sono solo, sono con te. Pensavo alla
bellezza dell’essermi unito a me, in una vita sola, senza più mendicare.
E’ stato così che ho alzato gli occhi e ho visto le rondini
volare alte sulla Piazza. Continuavano a fare virate strette, come quelle che
osservavo quando ero ragazzo, nella piazza del mio paese, durante gli ozi delle
lunghissime vacanze estive.
Volevo fermarlo in una foto quel volo, stavo per farlo
quando mi sento chiamare: “Antonio non leggere sempre, osserva la realtà!”.
Il cugino che non vedo da tanto è di fronte a me, gli rispondo che era proprio quello che stavo facendo. Io stavo tentando di trasferire
quella emozione a chi conosco, a chi legge le mie povere parole. Gli ho detto
che desideravo descrivere ciò che provavo in quel momento.
Mi ha raccontato dei suoi incontri, dell’immergersi nel
mondo per coglierne le vibrazioni per mettersi in sintonia, in fase,
direbbero i fisici.
Un percorso che poi è un processo e delle pagine, una dopo l’altra, per cercare di
spiegare cosa c'è oltre alla banalità, che tutto è unico e complementare al tempo
stesso.
Ne discutiamo a lungo, indichiamo ciò che può descrivere il
processo che stiamo vivendo, lo condividiamo, molte esperienze sono vissute
da entrambi e, perciò stesso, comprensibili, condivisibili, comuni.
Passa un amico comune in compagnia della moglie, mio cugino è di spalle invece io lo vedo e lo
saluto. Quest'amico poi si accorge di mio cugino e gli dice: “Ciao Vincenzo”. Anche io mi
stavo congedando e lo saluto chiamandolo allo stesso modo "Ciao Vincenzo".
Ero già a qualche metro da lui quando mi sento chiamare di
nuovo: “Antonio” . Torno sui miei passi per ascoltare di nuovo quelle
vibrazioni in fase con le mie e mi dice “Ma tu lo sai che mi chiamo Pietro e non
Vincenzo?”. Un tuffo indietro nel tempo di più di 50 anni e vedo il cane Tilly,
un volpino bianco della cugina Anna, la nonna e la zia Uccia che parlano fitto, fitto nella cucina della casa in Via Dante e tante teste
fatte uscire dalla calcarenite disposte sui gradini delle scale "intra alla curte". E vedo lui sempre chiuso in
uno studiolo arrampicato sulla scala.
“Avevo 24 anni” mi
dice, e poi mi racconta della madre che, dopo la tragica morte del padre
Vincenzo in un bombardamento dell’aeroporto di Galatina fa di tutto per
cambiargli nome, senza successo. Ed è allora che la madre lo chiama con lo
stesso nome del padre, lo fa lei, lo chiama Vincenzo, come il padre morto sotto
le bombe.
Anch’io mi chiamo Antonio, come si chiamava mio fratello
maggiore, morto a soli 3 mesi. Ma io ho quel nome dalla nascita, non mi fu
cambiato.
Mi dice che non sa perché me l’ha detto.
Io ho pensato che l’ha fatto per comunicarmi che un nome ti
da un destino, ti segna.
Ci salutiamo come tutti quelli che sanno che si rivedranno
ancora.
Antonio Bruno
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