Il Santuario della Pazienza: Opere di Leandro



Il Santuario della Pazienza (1) costruito nella forma di giardino di pietra - “petra su petra” (2), pensiero sopra pensiero, riflessione sopra riflessione – amalgama, nella mia mente, un impasto di sensazioni in prima istanza di meraviglia, stupore, malìa della sorpresa, mai venuti meno sin da quando ero bambina (3).
Spiare tra le fessure del muro di recinzione della casa di Ezechiele Leandro era per me un gioco, ma anche un’esorcizzazione per ciò che mi appariva, allora come ora, un misterioso mondo: il mondo di “Mesciu Zacheli” (Maestro Ezechiele), come i nostri paesani chiamavano, non senza una vena di scetticismo, quel bizzarro personaggio ed eccentrico Artista che era.
Nel mio ricordo Egli impersona la pazienza! Il suo volto e i suoi lunghi capelli bianchi circoscrivevano una ieratica compostezza di viaggiatore “ciclico”, nel senso che il viaggio “alla ricerca di” lo conduceva sempre sulle due ruote della sua bicicletta e la sua energia emanava un senso di modulatorio movimento del Tempo: una costante fermezza, la sua!
Ritornare, oltrepassare il muro/soglia del Santuario della Pazienza apre al mio sguardo adulto un sentimento comprensivo di tempo e luogo, di antropologica dimensione della fermezza, della costanza, della perpetua soglia del ricordo incantato e ammaliato.
Lo sguardo al cielo abbraccia l’azzurro e la notte come fossero gli unici elementi cangianti che animano il santuario-teatro di Leandro. Il cielo, sipario aperto sull’umanità vera protagonista, veglia, illumina e oscura.
Una taumaturgia.
Una scrittura di pietra impastata, resa segno grafico poliverso, silenzioso sortilegio, quasi che uno schiocco di dita potrebbe disincantare.
Un teatro nel senso etimologico della parola (4).
Chi rimane sulla soglia guarda.
Chi entra vede.
Una sottile differenza che connota due atteggiamenti: uno visivo l’altro percettivo.
Una tautologia.
Una scrittura di ordinaria quotidiana azione di vita - di morte - di recitazione.
Il senso del luogo si esplica nella folla, in quell’anima popolare che tra-sogna l’immaginario di Leandro, artista, più che di mondo, di popolo.
Come in una festa paesana risuona l’eco della fanfara.
Come i bagliori delle luminarie, gli apparati di Leandro sono “accesi” qua e là da cromie musive che accostano l’allegria al panico, la bellezza al pathos, il ludico al macabro in un intreccio fantasmagorico di apparizioni.
Appaiono nel “gioco delle parti” i drammi della vita: il dilemma di essere figlio o padre, o entrambi, l’incubo della sofferenza, la fede nella preghiera inudita, balbettata, infranta. Uno scenario dove ci si può aggirare e, liberamente, specchiare.
Un giardino dalle” siepi” pungenti, un paesaggio “litografico” di emozioni en plein air in cui urge scrivere al cielo la necessità di non rimanere impassibili di fronte alla conoscenza.
Ecco il bisogno di Leandro di dire, il bisogno di constatare. Il bisogno di visualizzare il Bene e il Male, il Sogno e la Realtà, la Menzogna e la Verità.
Rappresentare è un bisogno. Un mezzo catartico per assimilare nella finzione la sofferenza: la banda suona, la processione dipana, il Diavolo e l’Angelo, Pinocchio e Mangiafuoco, il grottesco e l’esotico (5).
Il mondo dell’infanzia, dell’innocenza e quello dell’uomo s’intrecciano in un dramma insoluto, se non nella concreta mescolanza, nell’inscindibilità della trama.
L’intelligenza e l’ignoranza, l’arguzia e la follia si mescolano donchisciottianamente e si afferrano nella materia di Leandro.
Shakespeare – docet - è onnicomprensivo in materia di esperienza umana, i suoi drammi sono l’essenza della vita, non solo di una trascorrenza, ma di una universale legge di natura.
La Bibbia e la creazione, Penzieri e Cunti (1978), risonanze escatologiche di riflessioni, più insite che ingenue quelle che Leandro dispiega nel suo copione, come nelle epopee mitologiche, così nei bestiari medievali hanno un assioma preciso, fatale.
La bellezza e l’armonia racchiudono l’essenza.
Il Santuario è anche un giardino (6).
Un giardino di pietra.
Un’eruzione della coscienza.
Una stratificazione rocciosa lasciata a consunzione.
Una salda coscienza della vita che l’arte rende emblema immutabile.
Dal mito al logos il sentimento umano è immutato.
La materia si trasforma, assume un aspetto diverso dal ruolo, si ricodifica.
Alle opere Leandro affida l’anima dell’uomo ed il suo pensamento, che Egli pazientemente ripone in quegli oggetti-spazzatura da Lui visti e adottati: figli del progresso, destinati a finitudine, a escremento. Riciclati, gli objets trouvés di dadaista memoria, vengono dotati da Leandro di nuova sensibilità umana, parlano una lingua inedita.
I mondo a colori e ricco di sfumature del santuario-giardino viene esplicato a cielo aperto. Come una festa patronale, l’allestimento pietrifica stati emotivi molteplici, reciproci e diversi, di appartenenza ed esaltazione.
Senso cristiano e senso profano si mescolano in questo spazio, hortus conclusus, recinto di un pensare e un credere umano prima ancora che artistico.
Il paradiso terrestre è parimenti il giardino della bellezza e del peccato, il giardino delle delizie (6) della vita è l’ ”altro” giardino, dove si mescolano ancora la finzione e la verità, il bene e il male, l’eterno e il transitorio, la bellezza e la trivialità.
Esistenza, cunti, racconti, pensieri riadattati e manipolati con profonda saggezza sono plasmati nella sostanza materia: dura e duttile che grida mimando, come in un film muto, la possibilità dell’arte di esprimere il dentro e il fuori, la singolarità e la molteplicità.
In questo sincretico riepilogo la trascrizione corsiva di Ezechiele stabilisce una mappa meandrica dove la temporalità si conta nei cocci, nelle pastoie dei sentimenti giustapposti e incorniciati, icone fluttuanti di concreti deliri a mente lucida.
La via percorsa nella vita è exemplum.
Un incastro immediato di esperienza vissuta e intessuta in una tela che aggrega e cattura.
Così mi piace leggere Ezechiele Leandro in un volo leggero di colui che la zavorra, l’ha deposta per sempre.
Settembre 2005
Maria Grazia Martina
MGM©Tutti i diritti riservati
Note:
(1) Il Santuario della Pazienza costituisce il corpus stabile dell’opera di Ezechiele Leandro (Lequile, 10 aprile 1905 - S. Cesario di Lecce, 17 febbraio 1981). Iniziato nella seconda metà degli anni Cinquanta, venne inaugurato nel 1975. Ề uno spazio raccolto in cui si dispiegano presenze umane, sacre, proprie dell’ethos popolare note all’artista. Sulla denominazione del luogo, Leandro ci dice il suo sentire la “pazienza” come dono di Dio, come emanata dal cielo. A tal riguardo, si vedano i suoi scritti teorici e i recenti approfondimenti critici a lui dedicati.
(2) Ho letto con profonda soddisfazione che lo stesso Leandro ha usato la medesima espressione a proposito della differenza tra il mosaico e ciò che io definisco “scultura ad impasto”. Aggiungo che l’esperienza plastica di Leandro è di tipo aggregativo, sommativo, una sovrapposizione eruttiva “di pensieri”, di contro al principio michelangiolesco secondo il quale scolpire si compie, neoplatonicamente, “per atto di togliere la materia” per liberare l’idea dalla scorza lapidea, passando dall’informe al corpo plasmato nella sua completezza. Leandro non scolpisce, impasta, cementifica, aggiunge fino all’eruzione. Procede dall’idea al difforme o all’informe. I suoi personaggi sono l’espressione della caducità, del brutto, dello smascheramento e parimenti la visualizzazione dell’essenza. Del resto l’estetica del “brutto” ha dominato il pensiero dell’arte dalla seconda metà dell’XIX secolo. Karl Rosenkranz, Friedrich Nietzsche e tutto l’Espressionismo ripensarono i tradizionali concetti di bello apollineo con un’ottica rovesciata, sovvertendone il canoni ritenuti assoluti. Ecco che il dionisiaco si impose come principio di Libertà, l’apollineo di costrizione, il brutto ebbe il fascino del vero e la maschera della ricerca della Verità oltre l’apparenza.
(3) Ho abitato per molti anni molto vicino alla casa di Ezechiele, in via Cerundolo angolo via Terragno, ed un fervido ricordo di quella famiglia composta, all’epoca, dalla moglie Francesca, mite donna, e dal figlio Angelo, amatissimo.
(4) Il luogo teatrale ne ha definito la finalità stessa théa = spettacolo, tron = posto: luogo da cui osservo. Il teatro come luogo del sacro, della festa, dell’esperienza umana narrata e filtrata dalla messa in scena, appartiene all’umano.
(5) L’esotico lo intendo nel senso della disponibilità dell’artista a “raccogliere” dal mondo non solo gli oggetti, ma soprattutto le esperienze spaziali e interiori da lui attraversate nel tempo.
(6) Il tema del giardino (sia privato che pubblico, sia reale che metaforico) abbraccia ambiti disparati: simbologie sacre, oniriche, ludiche, magiche ed esoteriche. Esiste un foltissimo elenco che va dalla “selva oscura” dantesca alla leopardiana “siepe” passando per epoche in cui il giardino è luogo claustrale di meditazione, luogo del perdimento d’amore, sede della fontana della giovinezza e luogo della cultura umanistica. Il giardino dei Tarocchi è un’altra fantasia di lettura che potrebbe rivelare l’immaginario poetico di Leandro. Del resto i Tarocchi sono la sintesi sapienziale, interpretano il vasto e diversificato campionario dell’umanità e delle divinità proprio come nel giardino di pietra di Leandro, immobilizzato da una dispotica Medusa e contemplato da un Dio deriso e da Madre Ignoranza.
Maria GraziaMartina
MGM©Tutti i diritti riservati
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Maria Grazia Martina, nata a san Cesario di Lecce, è docente di Storia dell'Arte vive e lavora nella provincia di Vicenza. Artista visiva, si occupa di scrittura, cura testi critici per autori di poesia e arte figurativa. Ha iniziato il suo percorso creativo interessandosi di critica d’arte, dapprima attraverso un originale "dialogo con l'opera" e successivamente in forma di calligramma e di prosa poetica. E’approdata alla poesia visiva mediante l'elaborazione di un personale segno calligrafico, ha realizzato Libri d’Artista intesi come OperaLibro.

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